"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

22 feb 2017

L'UTILITA' DELLE BAND "INUTILI" - IL CASO IVANHOE


Quante band fanno parte delle nostre discografie private? Personalmente non le ho mai contate ma siamo sicuramente su un numero a tre cifre. Di alcune di esse possediamo ogni album, studio e live; di altre la discografia parziale e di altre ancora magari solo uno/due album (quelli che, attraverso discussioni con altri appassionati e/o ricerche in rete, abbiamo letto essere quelli più rappresentativi).

Il desiderio massimo di un collezionista indefesso (brutta malattia quella del collezionismo…a tal proposito consiglio la visione del decimo ed ultimo episodio del “Decalogo” di K. Kieslowski, 1989) è quello di avere quantomeno tutto di ciò che in un determinato genere è considerato imprescindibile. Dischi senza i quali non potrem(m)o mai considerarci davvero conoscitori esperti di ciò che amiamo così tanto.

Ma poi c’è il contorno. C’è tutta quella genie di band che, appunto nel genere e sottogenere di appartenenza, non hanno inciso in modo sostanziale rispetto ai gruppi di riferimento. Ma che, per un motivo o per l’altro, un segno nei nostri cuori l’hanno lasciato. Magari anche solo con un album. O ancor meno: con una manciata di canzoni; o addirittura con una singola canzone, una linea melodica che ci si è stampata indelebilmente in testa. Come esempio per quest’ultimo caso mi vengono in mente i Crematory, band che non ho mai apprezzato appieno in quanto alla lunga ripetitiva e noiosa. Anche in quelli considerati come le loro migliori opere, vale a dire “Illusions” (1995) ed “Awake” (1997). Però, seppur non li ascolti da una quindicina d’anni, ricordo sempre a memoria, e con grande piacere, delle linee melodiche che mi fanno sussultare, come ad esempio “Tears of time” dal primo o, dal secondo, le parti di pianoforte accompagnate dalle clean vocals in “Away”; o ancora il chorus di “For love”.

Ma oggi non ci focalizziamo sui Crematory del tondeggiante “Felix” Stass ma su un’altra band tedesca, gli Ivanhoe. Gli Ivanhoe sono bravi, sono tecnici, non hanno mai pubblicato degli album particolarmente negativi. Ma nonostante tutto non sono mai riusciti a sfondare. Attivi ormai da una trentina d’anni, con un paio d’anni di buco dovuti ad uno split, ormai non se li fila nessuno. Ed è stato davvero un peccato, uno “spreco” di talento, perché è di talento che è pieno il debut “Visions And Reality” (1994). Un album davvero piacevole, ottimo direi, seppur derivativo dei padri tutelari Queensrӱche, Fates Warning e soprattutto (nel sound come nel songwriting) di “When dream and day unite”, disco d’esordio mai troppo osannato (e spesso incredibilmente sottovalutato) dei Dream Theater. 

Nell’arco dei 55 minuti che compongono VAR, con tanto di intro e outro, non ci si annoia mai (ad eccezione, forse, della trascurabile “Wait”) e si raggiungono apici assoluti come nelle splendide “Fallen reasons” (il cui chorus mi ritrovo spesso a cantare di punto in bianco) o “Miracle of a master’s child”. Brani più tirati (“Written in stone”, “Rebellion and indecision”), ballad emozionanti (“Eternal light”), mini-suite (l’ottima “Into the realm of unknown” di oltre 7 minuti di durata, compendio dell’Ivanhoe-sound): i Nostri in VAR non ci/si fanno mancare nulla, azzeccando quasi sempre le linee melodiche vincenti, senza mai essere pedanti o tecnicamente ridondanti. Se non si dà troppo peso alla produzione un po’ zoppicante e troppo bass-oriented, e ci si abitua alla voce un po’ particolare, su ottave molto alte, di Andy Franck (soppiantato negli album successivi dal più “canonico” Mischa Mang), allora direi che il disco può fare davvero al caso di tutti gli amanti del prog metal più intelligente.

Ahimè, i Nostri non si sapranno più ripetere in futuro su questi livelli, dando alle stampe, come detto, album discreti (penso ad esempio a “Symbols of time” e “Walk in mindfields”) perdendo però quella verve e quella freschezza di scrittura riscontrabile invece in modo massiccio in VAR.
Forse la loro pecca è stata quella di fare un prog metal non troppo originale, come detto derivativo di quello americano; in un periodo in cui il furor germanicus che riempiva le riviste specializzate era dedito al power restaurativo, quello da “defender” tanto per intenderci.

Non avranno la classe e l'eleganza degli Everon, o l'estro e l'ecletticità compositiva dei Sieges Even (giusto per rimanere in ambito prog teutonico) eppure gli Ivanohe per me rimangono importanti; uno di quei gruppi "di contorno" la cui esistenza ha in qualche modo reso più ricco me (e questo ovviamente conta zero) ma ha anche aggiunto un piccolo mattoncino di credibilità e completezza alla Grande Storia del Metallo. 

A dimostrazione che anche quei gruppi che appaiono "inutili", a volte, assolvono un'utile funzione.

A cura di Morningrise