"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 mar 2015

CLASSE E MELODIA : RETROSPETTIVA SUGLI EVERON

In ambito metal se nomini la città di Krefeld chiunque vi assocerà immediatamente il nome dei Blind Guardian. Ma la verdeggiante cittadina della Renania non ha dato i natali solo ai celebri Bardi guidati da Hansi Kursch; da lì proviene anche un gruppo davvero interessante e di notevole spessore artistico: gli EVERON

di Morningrise

Nati alla fine degli anni ’80, dopo la canonica gavetta, riescono ad esordire solo nel 1993 con il loro primo full lenght, “Paradoxes”, attirando l’interesse della stampa specializzata. Ma sarà con i due successivi album, “Flood” e soprattutto “Venus” (1997), che consolideranno la loro credibilità e si faranno un nome nell’ambiente.
La peculiarità per la quale me ne sono invaghito (e che a mio parere li fa emergere dalla massa dei gruppi prog) è, paradossalmente, la loro apparente semplicità.

Infatti nel loro sound non troveremo le caratteristiche tipiche dei gruppi prog metal: lunghe sezioni strumentali, tempi dispari, suite chilometriche, ricorrente uso dei concept, ecc.
No, la band guidata dal chitarrista/tastierista/cantante Oliver Philipps ha da sempre privilegiato la canonicità della forma-canzone, una durata media dei pezzi che raramente supera i 6 minuti, una grande orecchiabilità delle melodie e l’assenza dello sfoggio della preparazione tecnica dei componenti della band.

O forse…

Beh, forse tutte queste caratteristiche invece sono presenti…solo che sono espresse in un modo diverso, più nascosto, meno appariscente. Ed è qua che risiede tutta la magia degli Everon: nel loro privilegiare soluzioni melodiche immediate, ma al contempo ricercate e mai banali; nel posizionare nei loro dischi le canzoni in modo indipendente l’una dall’altra ma, al contempo, renderle parti di un insieme coerente, organico e collegato (quasi delle singole arie di un’unica suite); nel mettere al servizio del tutto le capacità strumentali/virtuosistiche, peraltro notevolissime, dei singoli (Philipps è un polistrumentista e compositore mirabile).
Ma, ancor più in generale, ciò che colpisce in loro è la squisitezza del songwriting; la qualità degli arrangiamenti, complessi ma mai invadenti e sempre funzionali all’impatto melodico; l’equilibrio perfetto di chiaro-scuri incantevoli, colonne sonore perfette sia per i momenti più malinconici che per quelli più esaltanti.

Nel corso degli anni la band ha poi lavorato per sottrazione, attenuando progressivamente la componente metallica del loro sound privilegiando quella più prettamente rock e lasciando ampio spazio alle partiture di tastiera. Non solo: nell’ ultimo disco, “North” (probabilmente il più completo e maturo della loro carriera), si fa ricorso anche ad un ampio uso di strumenti ad arco e persino all’utilizzo di una vocalist femminile (nella meravigliosa “Islanders”). Tutte scelte che sono, da un lato coerenti con l’evoluzione stilistica cui accennavo, e dall’altro funzionali a quella che è la cifra di tutta la loro produzione: l’emotività. Un’emotività che straripa da ogni singola canzone e che gli Everon mettono davanti a qualsiasi altra componente; un’emotività capace di portare cuore e cervello verso malinconici lidi interiori affacciati sull’abisso del proprio io, o proiettarci, l’attimo dopo, verso vette di esaltazione salvifica.
“North”, ahimè, è stata l’ultima fatica del combo teutonico: sette anni sono passati dalla sua uscita e già allora, nel 2008, la band si era fatta attendere sei anni dalla doppia, notevolissima, release di “Bridge” e “Flesh” (2002), due dischi che non avevano fatto altro che confermare la bontà della loro musica, certificata anche da entusiastiche recensioni della stampa.

If you walk that bridge, the bridge may break / But that’s a risk that you have to take / If it breaks, the river takes you in / and a whole new journey will begin / There’s a secret down in that river deep / But those who find don’t come back to speak
Mi piace pensare che il loro silenzio sia collegato a questi versi coi quali si concludeva proprio “Bridge”.
Che siano riusciti, nella loro musica, a trovare quel segreto senza poter tornare indietro?