"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

16 apr 2018

RETROSPETTIVA SUGLI ORPHANED LAND - (Parte I)





Se siete giovani fruitori di musica abituati ad ascolti in rete mordi-e-fuggi, allora gli Orphaned Land NON fanno per voi. 

Non fanno per voi perchè il gruppo capitanato da Kobi Farhi è “faticoso”, complesso e richiede del tempo. Tempo per assimilare le loro monumentali opere, tempo per coglierne le molteplici sfumature, tempo per apprezzarne i testi; tempo per capire perché l’autorevole voce dell’amico e loro collaboratore Steven Wilson li ha definiti “una delle migliori metal band del pianeta”. Ma è un tempo che, una volta speso, restituirà al paziente e attento ascoltatore regali indescrivibili. Tanto che la band diventerà per lui compagna di vita fedele e “buona” per ogni occasione e stato d’animo. 
Siete allegri? Ci sono gli Orphaned Land a farvi da sottofondo per accentuare la vostra gioia. 
Siete tristi e malinconici? Gli Orphaned Land saranno balsamo per la vostra anima. 
Avete voglia di far casino e desiderate essere accompagnati da musica che “pompa di brutto” (scusate l’orrenda locuzione)? Allora inserite un CD a caso degli Orphaned Land e lasciatevi andare ad un headbanging sfrenato…

Ok, basta con le digressioni. Perché questa Retrospettiva è invece per coloro che tutto questo tempo non ce l’ha o non lo vuole utilizzare; eccoci qui a venire in loro aiuto attraverso una sorta di bignami della carriera degli israeliani. Occasione dataci dalla recente uscita della sesta fatica della band di Petah Tikva, “Unsung Prophets & Dead Messiahs” (titolo stratosferico…).

Avremmo potuto partire dal trittico di album che li ha consacrati a livello mondiale negli anni 2000, a ragione, come una delle realtà più originali e affascinanti del panorama metallico, ma avremmo fatto un torto a Farhi & co, perché anche i primi due dischi degli anni novanta non solo sono notevolissimi in senso assoluto, ma rappresentano altresì la base, la condizione senza la quale gli OL non sarebbero diventati poi quello che sono adesso. 

Partiamo perciò da…

1. “Sahara” (1994 – Holy Rec.)

Nati dalle ceneri dei Resurrection, i nostri debuttano nel 1993 con una demo, “The beloved’s cry”, che potremmo definire sui generis: si tratta infatti di una musicassetta autoprodotta di ben…39 minuti! Alla faccia della demo…4 dei 6 pezzi che la compongono verranno ripresi nel debut “Sahara”, disco sul quale scommettono i francesi della Holy rec. Facendo bene…l’album, per essere frutto di 6 ragazzini men che ventenni provenienti da una cittadina di provincia di un Paese senza tradizioni metalliche, è incredibile. Il meglio del death/doom che in quegli anni andava per la maggiore viene qui canalizzato in una visione musicale che è già molto personale, oltrechè amplissima. Mi si consenta di dire che, se i Paradise Lost dei primi album sono il punto di riferimento più evidente, è altrettanto sicuro che gli OL, rispetto ai padrini albionici (compresi i primi Anathema), sono più raffinati, vari e articolati. Gli 8 brani che compongono “Sahara” hanno una durata di oltre 7’ di media dove il succitato death/doom inglese viene miscelato con quello svedese (Ophthalamia su tutti nonchè Tiamat per certi aspetti occult), con alcune soluzioni chitarristiche del folk-death dei primissimi Amorphis e con una propensione progressiva che in quegli anni avrebbe avuto (sempre in relazione al genere ovviamente) negli Opeth di “Orchid” i migliori interpreti. 

I personalissimi tratti oriental folk vengono già inseriti nel tessuto del songwriting senza mai essere invadenti (al di là dell’intermezzo arabeggiante “Aldiar al Mukadisa”), così come gli ottimi inserti delle female vocals (vedasi la splendida “Blessed be thy hate”). Al netto di qualche brano più derivativo (“Seasons unite”) e del growl di Farhi ancora acerbo, và sottolineato come annoverare già all’esordio brani sia così maturi (“The Sahara’s storm”, l’acustica “The beloved’s cry” o la conclusiva, spettacolare “Orphaned Land – The storm still rages inside…”) che sperimentali (“My requiem”, 8’ e mezzo di giravolte stilistiche e cambi di tempo inaspettati) non fosse da tutti. 

E questo era solo l’inizio…non era ancora niente rispetto a quello che verrà…

Voto: 8

2. “El Norra Alila” (1996 – Holy Rec.)

Trova te stesso / scopri Dio / e non potrai negare la verità

Si apre con queste parole la seconda fatica degli OL, descrizione di un viaggio di formazione, una sorta di bildungsroman, in cui si pone in evidenza il tema dell’incontro/scontro tra la parte divina/solare dell’Uomo (El nor) e la sua “zona oscura” (Ra Alila) (tema caro a Farhi e che verrà riproposto anche nei dischi della maturità).

Ancora lontano dalla pulizia della produzione di cui la band potrà godere con gli album a marchio Century Media, ENA ha il suo epicentro nel lavoro chitarristico, corposo e tagliente assieme, del fenomenale Yossi Sassi, coadiuvato dal lavoro ritmico di Matti Svatizki, autentici mattatori per quasi tutti i 68’ di durata del platter. Rispetto al predecessore, qua siamo di fronte a una maggiore impronta technical-death (di cui le iniziali, opethiane “Find yourself, discover God” e “Like fire to water” sono mirabili esempi), mischiata ad abbondanti dosi di heavy classico e partiture oriental. Le influenze death/doom, non più così marcate, lasciano spazio ad una maggiore sensibilità prog (effetto probabilmente dovuto all’adozione del formato concept) con una compenetrazione totale tra i diversi pezzi, soluzione questa che crea splendide architetture musicali (vedasi l’accoppiata “The path ahead” e “A never-ending way”), brani magniloquenti (“Of temptation born”) ma anche, a tratti, un po’ di difficoltà a seguire il filo del discorso complessivo. Attenzione, la scrittura è chiaramente di caratura superiore e non vi è alcun brano che potrei definire sottotono, ma è l’insieme che mi dà questa impressione, per quanto i Nostri sappiano anche stemperare la tensione accumulata con suggestivi intermezzi folkish (“Takasim”, “Joy”, e soprattutto la bellissima “El Meod Na’Ala”). 

Ad arricchire un piatto già succulento, c’è poi l’uso, sempre sapiente e mai troppo invadente, di female vocals, violini, shofar, oud e altri svariati strumenti mediorientali (meravigliosa in tal senso l’accoppiata conclusiva “The evil urge” e “Shir hashirim”). Ma l’impressione è che ancora i nostri baldi giovini cerchino la quadra, la sistematizzazione delle tante idee e spunti presenti nelle loro teste e nella loro sensibilità musicale. 

ENA quindi è al contempo affrancamento dagli stilemi dei gruppi di riferimento della prima ora, personalizzazione maggiore del proprio sound e ricerca di una via propria alla materia metal. Insomma, un disco propedeutico, ed ottimo viatico, al fatidico terzo album (quello, come tradizione vorrebbe, della definitiva maturità), forse meno spontaneo del debut ma che non fece altro che rimarcare le superiori doti (compositive, strumentali e concettuali) in possesso degli israeliani. 

Voto: 7,5

Proprio sul più bello però il progetto musicale degli OL si interrompe. Dovremo aspettare sette lunghissimi anni per conoscere il risultato di tanto silenzio.

Ma mai tanta attesa fu meglio ripagata…

(to be continued...)

A cura di Morningrise