"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

26 feb 2018

VIAGGIO NEL BLACK METAL CONTAMINATO ATTRAVERSO VENTI OPERE SEMINALI (parte prima)



A noi piace il black metal, questo lo avrete capito. E ci piace in tutte le sue forme, avrete capito anche questo! E fino allo sfinimento vi abbiamo raccontato di quanto il black metal sia un genere malleabile e plasmabile a seconda degli intenti: un linguaggio, più che un genere, che è stato in grado di flirtare con i mondi musicali più disparati, lontani e contraddittori.

Sebbene nella prima metà degli anni novanta fosse emerso un concetto di "purezza" stilistica, ossia un percorso di ricerca volto ad un’essenza che fosse puramente ed esclusivamente black metal (e che dunque rifuggisse tutte le possibili contaminazioni con altri generi, non esclusi quelli gravitanti nel mondo del metal), nel calderone del black metal sarebbero continuate ad affiorare scorie punk, thrash, death, doom e persino heavy classico: non altro che i mattoni con cui era stato edificato il patrimonio identitario del black metal stesso.

Oggi invece parleremo di band che hanno saputo sintetizzare ibridi credibili affacciandosi al di fuori del Reame del Metallo e pescando da ambiti musicali che, contro ogni ragionevole aspettativa, si sono rivelati capaci di procedere a braccetto con quell'antipatico ed elitario genere che è il black metal.

Abbiamo così individuato venti band che possono fare al caso vostro se volete saperne di più di black metal contaminato. Ecco le prime dieci imprescindibili opere...

Cradle of Filth: "The Principle of Evil Made Flesh" (1994)

Mentre in terra norvegese il black metal si stava configurando come genere a sé stante, nelle nebbiose lande d’Albione un manipolo di vampiri offriva, già a partire dal suo brillante debutto, un importante spunto evolutivo che avrebbe presto dato vita ad un filone destinato ad una ampia diffusione: il symphonic black metal. Il merito della combriccola capitana da Dani Filth fu di intuire prima di tutti gli altri il carattere intrinsecamente romantico del black metal, abbinando alla sua forza espressiva atmosfere gotiche degne della colonna sonora di una pellicola horror d’antan. A supportare questa idea, oltre a dosi massicce di tastiere, orchestrazioni e sensuali voci femminili, trovammo una tecnica al di sopra della media ed un songwriting estremamente brillante: da questo ambizioso insieme di cose scaturivano composizioni tortuose e testi che affondavano i canini in un conturbante quanto sensuale immaginario orrorifico che tributava i classici della letteratura gotica inglese, non disdegnando, al contempo, succulente trovate kitsch scippate dal cinema horror di serie B. Una musica letteralmente irresistibile, quella dei primi Cradle of Filth, esattamente quanto il saffico abbraccio delle vampire ritratte in copertina…

Moonspell: "Under the Moonspell" (1994)

Già con il successivo "Wolfheart" il sound dei portoghesi si sarebbe ripulito dalle asperità black metal che caratterizzarono questo loro imperdibile EP di debutto, portatore di una visione decisamente originale del metal estremo: alle influenze bathoriane e allo screaming bestiale di Fernando Ribeiro, i Nostri decisero di abbinare fragranze ed umori trasmessi dalla dominazione araba che ha caratterizzato una parte della storia del loro paese. Sitar, percussioni etniche, voci femminili, oscuri recitati, lugubri tastiere e tanta tanta tanta atmosfera: questa era la ricetta di una band che avrebbe lasciato presto i lidi del black metal per indossare le vesti di un fascinoso gothic metal gestito con invidiabile personalità.

Ulver: "Bergtatt – Et Eeventyr i 5 Capitler" (1995)

Il biennio 1995-1996 coincideva con il momento di massimo splendore del black metal scandinavo, ma qualcuno già in quegli anni dimostrò di saper guardare avanti. Nel 1995 debuttavano gli Ulver, destinati con i loro primi album a fare scuola in materia di contaminazioni folk. Forse il termine contaminazione non è il più adatto, in quanto l'integrazione fra black metal e folclore nordico avvenne fin da subito in modo naturale e coerente, anche e soprattutto da un punto di vista concettuale. In più c'è da dire che gli stessi Bathory, nella loro fase viking, avevano compiuto passi decisivi in quella direzione. Sarà tuttavia con il bellissimo "Bergtatt" (ed in misura maggiore con il successivo "Kveldssanger", totalmente acustico) che il black sposerà definitivamente la causa del folk. E così l’assalto sonoro dei Lupi, feroce quanto struggente, si tingeva di sentori arcani, legandosi a doppio filo con miti e leggende della tradizione pagana della loro terra. Non solo si adottava in toto la lingua norvegese, ma si feceva un uso copioso di voci pulite (sovra-incise in intrecci da brividi), inserti acustici di estrema suggestione, flauto ed evocative voci femminili: nessuno, fino ad allora, si era spinto così lontano.

In the Woods…: "The Heart of Ages" (1995)

Qualche mese dopo avrebbero debuttato anche i conterranei In the Woods…, dimostrando che il black metal norvegese, a pochi anni dal suo battesimo, era capace di spaziare in forme musicali libere che oggi potremmo definire post-rock. All'epoca il riferimento primo era tuttavia ancora la maestosità del rock psichedelico dei Pink Floyd. E certamente l’opener "Yearning the Seeds of New Dimension" fu eloquente nello spiegarci quanto questi debuttanti avevano intenzione di spingersi in avanti: un'infinita introduzione ambientale, tastiere ariose, arpeggi sognanti, assoli di marca gilmouriana e coinvolgenti voci pulite erano il biglietto da visita che i Nostri offrirono all’ascoltatore prima di immergerlo nelle asperità del black metal con coinvolgenti cavalcate elettriche e screaming raggelanti. Ma anche il resto dell'album non scherzava quanto ad audacia, offrendo a profusione inserti pianistici, field recordings e sognanti gorgheggi femminili in brani che superavano i dieci minuti senza annoiare un momento. Già con la testa fuori dal black metal, anche loro, come molti altri, avrebbero abbandonato presto la “nave nera” per portarsi sugli avamposti del progressive e dell’avanguardia.

Ved Buens Ende: "Written in Waters....."(1995)

Scaturito dalla collaborazione di scafati figuri della scena black norvegese dell’epoca (Vicotnik dei Dodheimsgard, Carl-Michael Eide degli Aura Noir e Skoll degli Ulver), questo singolare progetto collaterale con all’attivo un solo album ed un demo pubblicato postumo, si sarebbe rivelato uno dei più seminali per quanto riguarda le evoluzioni in direzione "post" del black metal. Il genere veniva smontato e ricomposto in jam libere e sprizzanti genialità ad ogni piè sospinto: sessioni visionarie in cui il linguaggio del black metal veniva dilatato in lunghe composizioni dall’andamento imprevedibile. Un modus operandi, quello del trio, totalmente inedito per il metal estremo, in cui si faceva tesoro delle lezioni sia delle band dedite al progressive che di quelle del noise-rock, con risultati non riconducibili né all’uno né all’altro bacino di influenze. Era lo spirito ad essere intrinsecamente progressivo, era il black metal, fra riff in tremolo ed arpeggi dissonanti, a prestarsi agli scopi di chi non poneva limiti alla propria creatività.

Burzum: "Filosofem" (1996)

Registrato nel 1993, "Filosofem" usciva postumo nel 1996, e a parere di chi scrive esso costituisce l'album post-black metal per eccellenza. “Filosofem” rappresentava la maturazione di un autore, Varg Vikernes, che aveva contribuito a gettare le fondamenta del black metal come oggi lo conosciamo e che fu presto in grado di trascenderne i confini. Non solo per via della lunga suite ambientRundtgaing av den Transcendentale Egenhetens Stotte” (esperimento peraltro già tentato in precedenza), ma per una modellazione del suono (rarefatto, etereo, atmosferico) che avrebbe spalancato le porte a tutti coloro che, anni dopo, avrebbero tentato, in ambito estremo, le vie del post-rock, dello shoegaze, della drone-music, dell’ambient e del cantautorato. Sì, anche del cantautorato, avete capito bene, in quanto la scrittura minimale di Vikernes (peraltro completamente solo nel portare avanti il progetto) diveniva una espressione sincera di sentimenti e riflessioni intime che si avvicina molto allo spirito del cantautorato tradizionale, sebbene la ruvida scorza elettrica e i toni decadenti di questa musica distoglieranno l’attenzione su questo aspetto, spianando la via ai lugubri alfieri del depressive black metal.  

Samael: "Passage" (1996)

Fin dagli esordi i Samael erano stati un gruppo atipico per i canoni del black metal: il loro sound era decisamente più cupo e riflessivo degli standard imposti dalla concorrenza norvegese e in questo ha sicuramente influito l’influsso dei conterranei Celtic Frost. Ma con "Passage" la formula già vincente degli svizzeri avrebbe assunto una nuova intrigante forma, tanto che si potrà parlare dell'inizio vero e proprio di una seconda carriera: il muro delle chitarre si sviluppava lungo i binari di implacabili ritmiche meccanizzate, mentre titaniche tastiere si ergevano al ruolo di protagoniste nel delineare linee melodiche di assoluto impatto. Si, gli influssi dell'elettronica e dell'industrial invadevano il black metal, con risultati tutt'altro che spiacevoli e non perdendo nulla in termini di coerenza con i dettami concettuali fondanti del genere: a tracciare una linea di continuità con il passato troviamo testi visionari che lanciavano i Nostri dai misteri dell’occultismo e dell’alchimia a quelli delle stelle e dell’astrologia.

Aborym: "Kali Yuga Bizarre" (1999)

Gli italiani Aborym guadagnano un posto d'onore in questa top twenty mostrandosi fra i più audaci nel percorrere i sentieri della musica elettronica abbinata al verbo black. I sinfonismi degli Emperor giocarono sicuramente un ruolo chiave nella modellazione di questo sound maestoso che pagava un forte dazio alla storia ed alla cultura della terra di provenienza dei musicisti: si pensi alle suggestive parti cantate in italiano ed alle trionfali orchestrazioni, degne di un peplum ambientato nell’Antica Roma. O di una Roma del futuro devastata dall’Apocalisse? Il black metal dei Nostri, infatti, assumeva un volto convintamente futurista, non temendo di confrontarsi con ambiti estranei al metal, e ad esso apparentemente inconciliabili, come l’EBM e la musica techno: un insieme di cose che i protagonisti stessi definiranno “alien-black-hard/industrial”. Ma non si preoccupino gli amanti del black metal più feroce, in quanto le spinte avanguardiste dei Nostri non intaccano in nessun modo l'aura di malvagità e di intransigenza che caratterizza il genere: anzi, i gelidi sintetizzatori, la drum-machine sparata a mille, i beat elettronici e il groove del basso (tutta farina del leader Fabban) non fanno che aumentare il senso di gelo e spietatezza che pervade le visioni catastrofiche di questi straordinari e dotati debuttanti, per l'occasione coadiuvati in ben tre brani dal mitico Attila Csihar.

Dodheimsgard: "666 International" (1999)

Sebbene sia lampante l'utilizzo di certi escamotage mutuati dell'universo sonoro industriale (campionamenti, filtri vocali, manipolazioni sonore di ogni tipo, attitudine noise ecc.), per i Dodheimsgard è più lecito parlare di avant-garde black metal. Ma mentre i “rivali” Arcturus avrebbero sviluppato le loro pulsioni sperimentali verso orizzonti progressivi, uscendo così dall’empireo del metal estremo (“LaMasquerade Infernale” vedeva la luce nel 1997 e già non presentava più collegamenti diretti con il black metal), la band capitanata da Vicotnik rimase sempre saldamente ancorata ai crismi di violenza tipici del genere. “666 International” si imponeva come un inferno di dissonanze, un turbinio schizofrenico di input sonori che scuote tutt’oggi l’ascoltatore, sballottandolo continuamente in un furibondo ottovolante: adesso cullandolo con un pianoforte classicheggiante, il momento successivo molestandolo con furiosi blast-beat, poi spingendolo negli abissi elettronici di new-wave e post-punk, infine lasciandolo morire nella morsa di riff micidiali e arpeggi strampalati. Il tutto condito dal “canto” versatile di Aldrahn, capace di passare in un millisecondo da uno screaming abrasivo a deliranti sproloqui degni di un predicatore invasato.

Void of Silence: "Criteria ov 666" (2002)

Concludiamo questa prima carrellata di album all'insegna della contaminazione industriale. Il merito principale dei Void of Silence, oltre ovviamente all’aver sempre confezionato prodotti di altissimo livello, fu quello di portare nel black metal (ma potremmo aggiungere nel metal in generale) una inedita passione per il neo-folk e per il martial-industrial: act come Death in June e Der Blutharsch facevano così capolino nel sound tragico ed al tempo stesso epico del trio romano, convergendo e toccando l’apice espressivo nella ballata acustica "Victory!" (che suona decisamente Morte in Giugno, sebbene le vocalità efferate nel finale tradiscano il background estremo degli autori). Il resto dell'album si adagia sulle movenze tragiche di un affossante doom (lo chiameranno apocalyptic doom), innervato continuamente da elaborate orchestrazioni ed inasprito dall'ugola corrosiva ed innegabilmente black metal di Fabban, direttamente dagli Aborym.

To be continued