"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

24 ott 2017

MARTIN, CI VEDIAMO ALL'INFERNO!



Moriremo. Moriremo tutti.

L'ovvietà di questa sentenza viene inasprita dai lutti sempre più numerosi che investono il nostro microcosmo. Invecchiare significa anche vedere gli altri morire, assistere alla morte altrui, di quelli che conosciamo, direttamente ed indirettamente.

I padri del rock sono già da un po' di tempo “vecchietti”, ma anche nel metal non si scherza a livello anagrafico. Un'evidenza, questa, che abbiamo compreso appieno solo con il decesso di Lemmy, occorso oramai quasi due anni fa. Un evento che in un certo senso ha smosso qualcosa nella nostra coscienza collettiva: anche quel mondo incantato del metal, con cui siamo cresciuti, che credevamo immortale, conosce la morte.

Che senso ha dunque elencare questa infinita sequela di nomi di morti? Per intristirci? No, per richiamare un concetto: il nocciolo artistico che questi morti, da vivi, hanno modellato per lasciarlo su questo mondo. Non è quindi per solo dovere di cronaca che oggi commemoriamo il grande Martin Stricker, in arte Martin Eric Ain, deceduto a soli cinquant'anni per un infarto, il 21 ottobre scorso.

Nel metal vi sono grandi e piccoli eroi: il bassista dei Celtic Frost, per un discorso di gerarchie, rientra nella seconda categoria. Ma per chi è appassionato di metal estremo, egli è un artista geniale, uno dei padri fondatori di un certo modo di intendere e fare metal (estremo).

Forse non lo ricorderemo per le sue linee di basso, ma indubbio è il suo contributo nel forgiare i contorni di quella mostruosità che risponde al nome di Celtic Frost: un'entità seminale che sarebbe divenuta parimenti propedeutica per il black metal come per il gothic metal e per l'avant-garde metal.

Certo, siamo soliti associare il nome della band alla figura di Tom G. Warrior, anima & corpo dell'entità elvetica, ma se Gabriel Fisher è la volpe, Martin Ain è stato il gatto.

Compagno di viaggio del leader maximo fin dai tempi degli Hellhammer, Ain ha, secondo noi, ricoperto un ruolo tutt'altro che secondario in seno alla band: non solo in quanto membro fondatore, ma costituendo negli anni il complice/alleato ideale per portare avanti una proposta così dirompente, spesso non compresa in tutta la sua portata rivoluzionaria.

Anche come autore, ovviamente, il suo contributo non è stato da poco. Ed è interessante notare come la sua penna sia stata puntualmente presente negli episodi più inquietanti, tesi, perversi e pervasi da suggestioni esoteriche della band svizzera. Si abbia in mente la "Danse Macabre" di "Morbid Tales", irrequieta strumentale ammorbata da una attitudine rumorista che vogliamo ricondurre in primis all'estro visionario del bassista (anche agli “effetti”, in quella circostanza).

Sarebbero stati così "dark", così misterici, così morbosi i Celtic Frost senza Martin Eric Ain? Propendiamo decisamente per il no.

Vogliamo però ricordare Ain anche per un paio di brani che fanno bella figura in quello splendido ritorno sulle scene che fu "Monotheist", edito nel 2006, dopo anni di silenzio discografico. "A Dying God Coming into Human Flesh" (ma che splendido titolo!) è probabilmente la migliore del lotto: sorta di "ballata spettrale" sorretta dal plumbeo basso di Ain, essa vede il Nostro anche dietro al microfono, interprete di un testo filosofico che è la migliore espressione di uno spessore culturale per niente comune nell'universo metal.

Non da meno, a livello di profondità concettuale, citiamo "Totengott", primo capitolo di una imponente trilogia di brani che chiude magistralmente l’album. Traccia ambientale scossa da umori funesti, essa rappresenta il lato sperimentale del musicista, anche qui al "canto", che in questo caso si fa latrato agonizzante di una malvagità unica: non altro che il degno complemento di un testo che è il manifesto del satanismo libertario di Ain.

Mi ricordo come all'epoca mi facesse sogghignare di soddisfazione l'idea che un "signore di una certa età" avesse ancora voglia di confrontarsi con certi temi e con certe modalità espressive, pur non essendo più un giovincello in preda a scariche ormonali: è il bello della "Vecchia Scuola", di quelli duri per davvero che non indietreggiano mai innanzi all'abisso.

D'altra parte c'è da ritenere che nel maneggiare certi concetti nemmeno lui si prendesse troppo sul serio, guardando al lato più intellettuale, metaforico ed artistico della faccenda, non privandosi mai, peraltro, di una intelligente e tagliente ironia. Non so se avete presente quella foto della band in cui, vestito da prete maledetto, si è fatto immortalare in una smorfia di dolore, mentre, in un insensato atto di autolesionismo, si portava al viso un crocifisso. Splendido!

Ecco, partendo da questi presupposti, e pensando alla sua esperienza di imprenditore (come titolare di un negozio di DVD e di un bar, l'Acapulco…) e co-gestore del locale Mascotte a Zurigo (dove ogni martedì sera presentava "Karaoke from Hell"), non penso che si offenderà, ovunque egli sia adesso, se lo salutiamo dicendogli:

"Martin, ci vediamo all'Inferno!"