"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

9 ott 2017

LEGNO II: RUNNING WILD



Parlando dei Grave Digger abbiamo descritto la Germania come la patria del Legno. Ed abbiamo citato i Running Wild come realtà analoga, sia per la storia (le due band esordirono discograficamente nel medesimo anno, sebbene i Running Wild potessero vantare diversi anni in più di gavetta) che per il genere suonato (un power metal rozzo e diretto, assai distante dalle melodie e dalla snellezza che avrebbero caratterizzato il power metal dei vari Helloween e Gamma Ray, tanto per rimanere in Germania).

Se possibile però, i Running Wild sono ancora più legnosi dei Grave Digger…

Almeno i Grave Digger, da un certo punto in poi, hanno abbracciato il formato del concept, che giocoforza doveva ampliare gli orizzonti espressivi del combo tedesco. Nel corso degli anni novanta, grazie ad un trittico di album che affondavano i piedi nella storia sanguinaria dell'Europa medievale e nel fantasy, la band seppe accattivarsi l'attenzione di molti simpatizzanti del power metal più “romanzato”, che proprio in quegli anni vedeva come imprescindibile punto di riferimento i Blind Guardian: una gloria riflessa, certo, ma che almeno palesava una "quadratura del cerchio", un'evoluzione (se così la vogliamo chiamare) verso un ventaglio più nutrito di soluzioni stilistiche ed umori che inevitabilmente un concept si porta dietro.

I Running Wild nemmeno questo: in falegnameria, sempre chino sul tavolo da lavoro, Rolf Kasparek non ha mai alzato la testa per capire cosa stesse capitando nel mondo. Fosse l'artista maledetto, il genio autistico che partorisce i suoi capolavori incommensurabili isolato nel suo mondo interiore, potrebbe anche avere il suo fascino. Ma essendo Rolf Kasparek, parlandoci di pirati e scrivendo più o meno lo stesso album replicato pedissequamente in una carriera più che trentennale, non ci sentiamo di essere troppo indulgenti. Così lo descrivevamo in occasione della nostra rassegna sui migliori brani lunghi del metal (parlavamo per l'occasione di "Treasure Island"):

“Rolf Kasparek, in arte Rock'n'Rolf, non è persona che ama stravolgere consuetudini consolidate. E’ quello che, quando va dal barbiere (lo stesso barbiere di una vita), si accomoda sul sedile ed enuncia solennemente “il solito!”. E’ quello che in pizzeria ordina sempre la margherita, un po' perché non interessato ad assaggiare altro, un po' perché è veramente convinto che la margherita sia la pizza migliore. Poi ovviamente c'è l'occasione speciale che deve essere festeggiata con una aggiunta di bufala, o, se proprio si vuole fare i pazzi, con una salamino-piccante. Una quattro stagioni, una capricciosa sono semplicemente inconcepibili.”

Da un punto di vista concettuale (se in questi termini vogliamo parlare), si è assistito, dopo una prima fase fondata su liriche riguardanti satanismo e temi vari tipici del metal, ad una maggiore "focalizzazione tematica" che ha visto prevalere quell'immaginario piratesco che diverrà il centro della poetica di Kasparek. Tanto che per i Running Wild verrà coniata una etichetta ad hoc: il "pirate metal" (sorta di sotto-genere destinato a fare persino proseliti). Simbolicamente questo coincide con il classico “Under Jolly Roger”, che peraltro da un punto di vista stilistico suonava come i suoi predecessori.

Quanto alla musica in sé, dalle sonorità monolitiche degli esordi (zavorrate da un'ugola poco versatile e da una non proprio spiccata fantasia compositiva), assisteremo ad una "evoluzione" di questo sound verso brani più strutturati, dinamici e con una dose maggiore di melodia ed atmosfera. Questo accadeva approssimativamente con lavori come "Port Royal" e "Death or Glory": album che, prendendo la rincorsa dallo scorcio finale degli anni ottanta, avrebbero lanciato il nome della band verso una certa popolarità, alimentata dal fermento generale dell'epoca di rifioritura del power (gli anni novanta, appunto).

In un certo senso come successo ai Grave Digger, ma contrariamente a Boltendhal e compagni, c'è da dare atto ai Running Wild che essi non ebbero bisogno di cornamuse, concept guerreschi ed espedienti vari: essi brillarono di luce propria, grazie ad un songwriting ispirato che resse almeno fino a "Black Hand Inn", anno 1994, con un'epicità che ben si sposava ai gusti del periodo.

Ma se i Running Wild sono epici, lo sono perché possiedono una epicità esasperata che va letta come una deformazione dell'heavy metal attraverso la lente di ingrandimento incrinata di Kasparek. No, non lente di ingrandimento incrinata, semmai retina incrinata, perché il problema dei Running Wild (che poi, come vedremo, sarà lo stesso dei "padri del legno" Accept) non è un problema solo di limiti espressivi, di scarsa fantasia, di volontà, ma di percezione vera e propria. Le lenti deformanti sono direttamente dentro alla testa di Kasparek, che mai per un istante ha messo in dubbio la rettitudine di quello che ha fatto e che continua a fare. Lo dimostra il fatto che spesso un brano dei Running Wild si apre e si chiude come se fosse l'ultimo della loro carriera: perché Kasparek è talmente convinto di detenere la verità, che deve vivere in conformità di essa ed in sua armonia in ogni momento, come un religioso fervente riesce senza forzature ad essere religioso in ogni istante della sua vita.

Certo, anche gli album dei Running Wild hanno le loro varianti (il brano lento sabbathiano, la traccia lunga spesso posizionata alla fine), ma in generale in ogni brano, anzi, in ogni passaggio, c'è tutta l'essenza dei Running Wild, tutta la loro visione del mondo, come quegli organismi semplici che presentano la stessa composizione organica in ogni parte del loro corpo: un "comportamento" simile a quello del lombrico che se anche lo tagli in due continua a vivere serenamente (sarà da questa immagine che, inconsciamente, è saltato fuori un titolo come "Resilience"?).

A questo punto è doveroso ricordare che il compito della rubrica "Legno" non è denigrare artisti validi che hanno saputo ricoprire un ruolo rilevante in certe branche del metal, ma capire il perché ascoltare band come i Running Wild non solo non è cool, ma è anche impossibile al di fuori dei circoli più puristi del metallo, laddove realtà più estreme e persino ostiche hanno saputo rapire i cuori dei nuovi metal kid e non solo.

La differenza sta sempre nel fatto che, dall'immagine alla sostanza, proposte come quelle dei Running Wild non hanno attrattive per chi sta fuori dalla cerchia del metal, per chi non può capire tutti quei rimandi, quei sottintesi, quelle regole non dette che solo i metallari di media-lunga data possono anzitutto capire e poi, eventualmente, apprezzare (cosa da non dare per scontata). Probabilmente la devozione al Verbo del Metallo, la serietà, la professionalità  sono noiose ed hanno un'attrattiva pari alla riedizione di un videogioco di nicchia scomparso da tempo agli occhi di un non appassionato di videogiochi.

Nel nostro percorso volto però a comprendere cosa è il legno (eravamo partiti più che altro da cosa non è legno), oggi capisco che una caratteristica dell'essere legnoso è la mancanza di immaginazione, che nei Running Wild va a braccetto con l'ottusa arroganza di chi pensa di conoscere il mondo senza mai essere uscito dal proprio orto; di chi si giova della ferrea convinzione che non vi sia niente di buono al di là delle Colonne d'Ercole del rock classico da un lato e dell'heavy metal classico dall'altro (generi peraltro rielaborati dai Running Wild con l'agilità di un corridore che si lega alle caviglie dei sacchi pieni di segatura).

La fortuna di queste band di legno che inventano poco e si limitano ad introdurre sfumature diverse a formule ben collaudate (da altri); questi “artisti” che portano avanti per intere carriere le stesse idee e lo fanno senza fantasia, senza immaginazione, con movimenti goffi e bruschi, con limiti mentali prima ancora che tecnici; la fortuna di tutte queste band ed artisti, si diceva, è che ci sarà sempre nel metal qualcuno che comprerà i loro dischi e si presenterà ai loro concerti.

Vivere o sopravvivere in questa comfort zone, a vedere bene, è quanto di meno coraggioso, audace vi sia (altro che pirati!). Loro la chiamano resistenza, ma è cosa risaputa che alla lunga il catenaccio porta alla retrocessione. E per i Running Wild, decorosa squadra di serie B, da molti anni a questa parte abitué della bassa classifica (con vari crisi ed uno scioglimento alle spalle che hanno affossato il nome invece di alimentare la leggenda), scivolare nelle categorie infime del Metal è un attimo...