"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

30 set 2017

VIAGGIO NEL METAL AFRICANO - PLENILUNI BERBERI E INQUIETUDINE THRASH IN ALGERIA





Cambiamo fronte, e dall'Africa meridionale ci spostiamo nel Maghreb. Partiamo senza motivo alcuno dall'Algeria. Noi non giudichiamo i popoli se non in termini metallici e in questa sede ci limitiamo a segnalare un altro nonsenso politico di Wikipedia, ovvero: l'Algeria non era un paese libero fino al 2010, ma poi, con la Primavera Araba, finalmente il popolo si è ribellato, ed ha rieletto il presidente che c'era prima (!).

Sul piano metallico invece, la situazione è stata definita “la silenziosa avanzata dell'heavy metal algerino”, a differenza della situazione di altri paesi, come Angola e Botswana, in cui si racconta di scene risicate ma ribollenti.

Un tentativo di censimento dei gruppi metal algerini ci fa individuare una cinquantina di nomi, alcuni dei quali con solo un demo all'attivo, una ventina con almeno un album.
Ci piace citare i due casi più geniali. I primi, dovendo scegliere un nome, per non essere confusi hanno scelto Dark Angel (e così siamo a tre, anche dei tizi della Repubblica Ceca hanno avuto la stessa idea), ma poi per eliminare ogni ambiguità si fanno chiamare nell'ambiente D.A. Puntare sul nome a volte è tutto.
Se doveste trovarvi ad un concerto death-grind in Algeria, occhio a non confondere i Vomit Gore con i Vomygore (se ve ne intendete saprete naturalmente che i secondi si sono sciolti e solo i primi sono attivi): il nome d'altra parte è uno di quelli che attira, e che ti viene in mente subito, strano anzi che non ci siano altri gruppi che lo scelgano simile. Peccato non sia disponibile “L'Harem delle donne decomposte” dei Vomygore, rimarrà sempre una curiosità inappagata.

I generi prevalenti sono quelli estremi: qui c'è un solo nome di metal classico, a differenza che nell'Africa del Sud.

Partiamo dal black algerino, con i Barbaros. Direte: ha senso parlare di Satana dalle parti di Allah? In teoria sì, perché nella teologia islamica Satana e Lucifero ci sono, sebbene più in regime di libera concorrenza che di contrapposizione. La cosa può comunque essere marginale, perché il black che si mastica in Algeria riporta più alla poetica della ferocia e dell'ombra che non al satanismo in senso religioso. Con questo gruppo è parzialmente soddisfatta la prima delle aspettative che avevamo menzionato nell'introduzione al metal africano: metal con elementi etnici integrati.
I Barbaros riescono a proporre un black grezzo, ma ordinato, con propaggini nel metal classico, con un tappeto dissonante che ha la sua originalità. Le ritmiche, a tratti alla Hellhammer, sono integrate con spunti di folk arabo. Mayhem con miscela arabica. Già dalla grafica si respira un'aria black esotica, dal motivo ornamentale laterale alle arborescenze del logo.
Tornando alla questione ideologica, Barbaros è come dire Vikings in Scandinavia, ovvero sono gli indigeni pre-islamizzazione. Nonostante non si faccia un riferimento esplicito alla religione islamica come “nemico”, il carattere etnico-identitario del black metal si conferma anche in questo caso. Stando alle loro dichiarazioni, Barbaros è da intendersi non nel senso di Conan il Barbaro, ma nel senso di Berberi, variante del nome (barbaroi) con cui i greci chiamavano tutti i popoli dalla parlata per loro incomprensibile e probabilmente anche rumorosa (i molesti blateranti, potrebbe essere tradotto). E' un concetto troppo difficile da spiegare per esempio ai Manowar, ma i lettori di Metal Mirror sono di ben altro spessore.

Se una delle anime del movimento metal è quindi questa, non dissimile dai suoi analoghi nordici, l'altra è un'anima che si propone come anti-tradizionale, quantomeno se la tradizione è intesa come gusto dominante e valori imposti. A questo modello fanno riferimento i gruppi dell'arco che va dal metal classico al grind, come i Lelhahell (nome che più arabico non si può).
Contestazione non significa comunque avversione per la cultura madre, poiché gli stessi Lelahell, consapevolmente o meno, riescono a incastonare qualche melodia araba nel loro death-grind. Se il giudizio che esprimono sulla musica popolare algerina è “dei ratti che squittiscono dentro un tombino”, evidentemente però rivendicano e fanno proprie le peculiarità musicali della loro terra, valorizzandole con un nuovo registro.
Apprezzati nel circuito death europeo, a Maggio risultano aver suonato anche a Milano. Dalla loro biografia si ricava per esempio che il fondatore è al suo quinto gruppo (e sono tutti nomi della nostra lista), per cui probabilmente i veri animatori della scena nono sono così numerosi. Da questo punto ampliamo quindi la nostra rete di conoscenze death, e scopriamo anche i Devast, death acrobatico che coniuga tecnica e brutalità. La batteria macina in avanti, le chitarre riavvolgono con movimenti a gambero, e contrappuntano, con un suono stridulo, il grugnito del basso. Due EP da ascoltare con attenzione.

I Litham poi suonano un metal poliedrico, strutturalmente incentrato su soluzioni techno-thrash, ma inquieto nello svolgimento. Non mancano neanche qui le melodie arabiche, sia nei solismi che in alcuni riff portanti. Sprazzi jazzati, così come nei Devast, avvicinano questo disco a tutta quella serie di dischi thrash-death sperimentali che a inizio anni 90 rappresentò la faccia “riflessiva” ed esplorativa dell'estremismo sonoro, come epilogo di un death metal che andava a esaurirsi e senza continuità con un movimento black che partiva da altre esigenze espressive. I Litham quindi riprendono quel discorso, tenendosi lontani dalla forma-canzone, e vanno avanti per quasi 40' in “Dhal Ennar” con fluidità e varietà.

Entropy: una galleria del thrash, con uso versatile dalla voce che va dal growl al timbro stridulo. Nessuna fretta di sfuriate, nessun imbarazzo nelle parti strumentali, nessuna difficoltà nell'alternare i “vuoti” delle parti acustiche o lente ai “pieni” aggressivi del pestaggio thrash. Anni 80 e duemila fusi in una continuità spiazzante. Del resto è normale che nelle sacche isolate la piega delle contaminazioni proceda per auto-inoculazione, con il rischio di produrre una serie di mostruosità genetiche, ma anche nuovi ceppi funzionali.

Una delle lezioni di questo viaggio africano, che prende corpo sempre più, è che chi oggi vuol suonare thrash deve reiniziare dai paesi “minori”, o comunque da una scena nuova che si sta dando da fare nella povertà di mezzi e riscontri. I grandi “ritorni” delle vecchie glorie europee, si fanno venire l'ernia per ricordarsi come facevano a “pestare”, mentre questi sono già avanti, anche se a pezzi e bocconi.

A cura del Dottore