"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

8 set 2017

VIAGGIO NEL METAL AFRICANO - BOTSWANA, I FICHISSIMI DEL DEATH METAL




Ci spostiamo in Botswana. Anche qui secondo me si conferma la teoria del metal come sintomo di relativo benessere.

A differenza dell'Angola, qui i metallari si presentano in veste più carnevalesca e godereccia. I “Death Metal Cowboys” sono tizi che di giorno sono normali poliziotti, impiegati, operai, e di sera si vestono in maniera appariscente e grottesca per andare ai ritrovi metal. A dir la verità più che evocare l'immaginario death metal, ricordano Calà e Abatantuono ne “I Fichissimi” quando si vestono tutti frange e colori sgargianti per andare in discoteca, compreso il fratello “Ibrido”.

Il Botswana però ha ben altri problemi che le scorribande di questi Death Metal Cowboys, tipo il tasso di HIV del 38% nella popolazione adulta. In compenso non ci pare che questi Death Metal Cowboys siano minacciosi, tutt'altro: sembrano bonari, neanche spacconi. Leggo che si prendono molto sul serio ma forse si fa riferimento al feticismo e la passione per un abbigliamento che vive di simbolismo, più che ad una seriosità autentica. In altre parole, un conto è appiccicarsi teschi di dingo sul chiodo dietro e davanti, altra è la totale assenza di autorinonia in Abbath che in pelle e borchie fa il passo dello scarafaggio in mezzo alla neve. Eppure, a ripensarci, anche Fenriz si divertiva a farsi chiamare Hank Amarillo e vestiva da cowboy mentre ancora suonava tediosissimo death metal. Ma questa è un'altra storia: il lampo nel cielo del Nord fece perdere il senso della realtà, mentre qui siamo nel profondo Sud.

Le Morok, le donne metallare, trovano ovviamente nel metal una emancipazione doppia: dal conformismo e dall'idea della donna remissiva e casalinga. Peccato che un fotografo ci tenga a sottolineare che i fidanzati e mariti, durante una sessione fotografica, si erano più volte messi di mezzo ad ostacolare gli scatti perché non approvavano che le loro donne fossero riprese “in presenza di un altro uomo”. Ragazzi, decidetevi!

Un oscuro presagio precede invece il nostro viaggio musicale, quando leggo in rete che in realtà qui di “death metal” ce n'è poco, anzi di metal ce n'è poco e che più che altro si tratta di una evoluzione del già esistente fenomeno di pacifico ribellismo rock, che ha inglobato tutti i generi “giovani” senza discriminazioni di sorta, anzi con tendenza al calderone unico.

Ma facciamo finta di non aver letto e spulciamo il materiale disponibile in rete. Intanto, una piacevole sorpresa nello scoprire che alcuni dei gruppi suonano metal classico: soprattutto gli Skinflint, che in alcuni passaggi suonano decisamente maideniani.

Abbiamo prima descritto la scena del Botswana sul piano del costume, in termini che potevano corrispondere a una qualsiasi scena metal di provincia, anche quella di Pisa che ho vissuto personalmente ad inizio '90. E anche nel caso degli Skinflint non siamo troppo lontani, visto che due membri sono i fratelli Sbrana (tipico cognome pisano), Alessandra e Giuseppe. La tesi di Giuseppe, secondo il quale l'Africa è candidata a rappresentare il futuro del metal in virtù della sua ricchezza di leggende, tradizioni, simbolismi, ci sembra ragionevole, anche se non conosco posto del mondo in cui questo non sia potenzialmente vero.

I Crackdust hanno un suono corposo: catalogabili come death metal per alcuni stilemi di ritmo e voce, sono però una fusione con un gusto metal classico nel riffing. Anche gruppi almeno teoricamente minori, come Remuda o Stane, in quanto a pienezza di riffing e capacità di sostenere parti strumentali si fanno valere. Anche qui (ma probabilmente sono io ad essere in preda al delirio) mi par di riconoscere negli Stane le sonorità di un vecchio gruppo pisano di cui non rimane traccia, i Killing Thrash, sorta di metal minimale ma roccioso con voce rauca. Già con questi pochi nomi diciamo che il Botswana si colloca una spanna sopra l'Angola.

I nomi più in vista dovrebbero comunque essere i Wrust e gli Overthrust. Death ma dinamici, ribadiscono l'orientamento del death africano alla semplicità strutturale, talvolta indisponente. Peccato perché l'impressione è che la tecnica ci sia e anche una cifra stilistica, ma i brani appaiono troppo “tronchi” e la continua rottura del ritmo produce un effetto più grindcore, privo di quel compiacimento ritmico ed estetico proprio del metal e quindi anche del death metal. Non voglio arrivare a dire ovvietà, sostenendo che preferisco cento volte proposte come queste che inutili uscite sul mercato occidentale di gruppi stanchi e comunque rinnegati.

Come ammoniva quel commentatore web, in realtà di death metal non c'è molto, o meglio, non una decisa linea stilistica. Invece la sorpresa migliore è la parte del metal classico, magari più acerba a livello di produzione, ma anche più decisa. A colpire soprattutto è lo strano effetto del metal made in Botswana, in particolare per quanto riguarda gruppi come gli Skinflint o gli Stane: un metal ancora fuori dal tempo, ma non nel senso di anacronistico, bensì nell'accezione di genuinamente sognante.


A cura del Dottore