"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

10 set 2017

REVISIONISMO STORICO: I SATYRICON E GLI ALBUM DELLA "VERGOGNA"



Il 22 settembre uscirà "Deep Calleth Upon Deep", ultima fatica discografica dei Satyricon. Non siamo certo quelli che la vigilia di quella data si ritroveranno a grattare la vetrina del negozio di dischi, ma un po' curiosi siamo, tanto più che siamo quasi sicuri che in autunno andremo a vedere come se la caverà sul palco la premiata ditta Satyr/Frost.

Per ingannare l'attesa, abbiamo rispolverato gli "album della vergogna", ossia quelli appartenenti alla seconda fase della carriera dei norvegesi: fase che li ha visti abbandonare i tratti stilistici che li avevano resi noti e fatti apprezzare al mondo, ma che rappresenta fieramente quello che sono oggi i Satyricon, non disposti affatto a rimangiarsi la parola. Lecito pensare che “Deep Calleth Upon Deep” non si discosterà molto dalle coordinate in cui la band si è mossa negli ultimi quindici anni.

I Satyricon sono fra i nomi storici della gloriosa era del black metal norvegese degli anni novanta e con tre album si sono assicurati un posto a vita nell'Olimpo del Metal Estremo. Sul finire della decade d'oro e con la crisi che ha investito il genere, anche loro tuttavia dovettero in qualche modo adeguarsi. Ed ecco che tirarono fuori dal cilindro un lavoro come "Rebel Extravaganza": un album di forte rottura con il passato (anche a livello iconografico) e per certi aspetti avanti con i tempi (correva l'anno 1999). Esso costituì senz’altro un tentativo importante per dare forma concreta ad una idea di post black metal che doveva giocoforza essere plasmata, ma come album in sé non è da considerare un capolavoro. A me per esempio non ha mai fatto impazzire, lasciandomi una amara sensazione di incompletezza: la voglia di lasciarsi alle spalle il black metal tradizionale era evidente, ma alla fine lo slancio non fu sufficiente per approdare a qualcos'altro.

Questa dinamica del "vado-non vado" è rinvenibile anche negli album successivi, i quali, se hanno un difetto, è di non mostrare abbastanza sicurezza, in quanto ogni volta la band sembra dover fare i conti con i propri sensi di colpa e quindi sentirsi in dovere di compiere parziali passi indietro che vanificheranno ogni salto in avanti, a prescindere dalla direzione di volta in volta intrapresa.

"Rebel Extravaganza" è stilisticamente ed attitudinalmente più vicino a quello che seguirà rispetto a quello che lo ha preceduto, ma nell'immaginario collettivo questo album si colloca ancora nella prima parte della carriera dei Satyricon, quella virtuosa. Eppure, se si va a vedere il successivo "Volcano", saranno più i punti di contatto che quelli di discontinuità, sebbene vi fosse una differenza fondamentale: la presenza di un brano come "Fuel for Hatred". Con questa "hit" (peraltro una commistione riuscitissima fra black metal e "punk" motorheadiano) i Satyricon approdarono a quel black'n'roll con cui sarebbero stati in seguito identificati: un black metal piacione, semplice, da molti visto come "musica da intrattenimento" che tuttavia rimarrà, da un punto di vista meramente quantitativo, una parte minoritaria nella produzione artistica dei Nostri, visto che mai il legame con il metal estremo verrà reciso.

Questi tre minuti e cinquantotto secondi sono il vero spartiacque nella carriera dei norvegesi, almeno dal punto di vista dell'immaginario collettivo. Nel 2017 ci sentiamo di affermare: peccato che la band non abbia creduto fino in fondo in questo percorso, perché in definitiva è dell'altro lato della musica dei Satyricon che non avevamo bisogno, ossia quella del revival di thrash metal, death metal e proto-black metal che ogni volta ha zavorrato e reso banali i lavori dei Nostri, non manchevoli certo di spunti interessanti. E così, come molte altre carriere di "ex grandi" con le idee poco chiare, il cammino dei norvegesi è divenuto il classico percorso tentennante fatto di continui passi avanti ed indietro, tanto che ogni album (quattro, fra poco cinque...) può essere descritto, rispetto al precedente, un pochino meglio ed al tempo stesso un pochino peggio. Insomma, un girare intorno alle cose che sostanzialmente manifesta una insicurezza ed una mancanza di forti intenti che ha reso non esaltante il cammino di una band in possesso di un potenziale artistico che poteva essere meglio sfruttato. Vediamo nel dettaglio se c'è qualcosa da salvare...

"Volcano" (2002)

Come si diceva prima, molti sono i punti di continuità con "Rebel Extravaganza", ma è bastata una copertina ed un titolo insoliti ed un paio di riff più orecchiabili per rendere "Volcano" l'album dello scandalo. In verità il prodotto rimane sostanzialmente estremo e, data la maggiore vicinanza con il periodo d'oro della band, ancora assai ispirato e sicuramente meno manierato/artificioso dei tomi successivi. A fare la differenza con il passato è un approccio più semplicistico e diretto e nel complesso l’album lascia di sè la medesima impressione del predecessore, ossia di genio sprecato, di scelta non portata fino in fondo, di spunti interessanti spersi in un contesto di banalità assortite inframezzate a fasi in cui la band sente la necessità di tornare nella sua comfort zone, senza però la magia di un tempo. Peccato, perché la chitarra estrosa di Satyr è portatrice di una cifra stilistica non indifferente e il drumming impeccabile del compare Frost è un bollino di certificazione di qualità che non tutte le band possono sfoggiare. Così da un lato ritroviamo sterili sparate intramezzate da prolissi rallentamenti di matrice noise/industrial, dall'altro ci dovremo sorbire la fiera delle vecchie glorie del thrash degli anni ottanta. A certificare lo stato confusionale vissuto dalla band, giunge il trittico finale di brani in cui si rispolverano atmosfere epiche e chitarre zanzarose, fra l'altro con risultati esaltanti. Ma anche quando si entra nel mood giusto, i due sembrano comunque perdere la bussola per la strada abbandonandosi a minutaggi troppo elevati per il quantitativo di idee a disposizione (è il caso degli interminabili quattordici minuti di "Black Lava"). In questo contesto i colpi di genio (come per esempio l'idea di impiegare la voce della talentuosa cantautrice norvegese Anja Garbarek, che si muove leggiadra fra jazz ed hip-hop in contrasto con il metal furibondo dei Nostri) sono stillati con il contagocce e non riescono ad elevare concettualmente una musica che rimane sostanzialmente fisica. Allora ben venga "Fuel for Hatred", che con la sua verve rock'n'roll porta quella freschezza di cui il black metal aveva bisogno ad inizio millennio.

(Voto: 7)

"Now, Diabolical" (2006)

Già il titolo puzza di fica e questo poteva essere un buon segnale, facendoci presagire l'uscita dell'album che avrebbe rotto gli ultimi indugi, lanciando definitivamente il duo nell'empireo del "cool metal", ossia quel metal da paraculi che si poteva già assaporare con il singolone "K.I.N.G.", sulla falsa riga di "Fuel for Hatred". Invece anche "Now, Diabolical", come il predecessore, mostra molti volti, forse troppi, consegnandoci una band ancora più disorientata ed indecisa sulla via da intraprendere, in più infiacchita da una ispirazione che va e viene. Nel complesso i Nostri mostrano una maggiore attenzione per i temi orecchiabili e lo dimostra un trittico di brani come la già citata "K.I.N.G.", "The Pentagram Burns" e "A New Enemy" (con addirittura l'utilizzo di voce pulita ed atmosfere dark-wave): brani scorrevoli, semplici ma efficaci, dove la chitarra di Satyr mantiene nei riff uno stile decisamente riconoscibile (a tratti evocando ancora quelle trionfali melodie medievaleggianti delle origini) ed un Frost forse un poco sacrificato dietro alle pelli, ma che, pur non esprimendo tutto il suo potenziale tecnico, mostra di sapersi calare con maturità in schemi semplici e lineari, fra pomposi mid-tempo e momenti addirittura ballabili. Il resto dell'album (salvo gli umori western di "Delirium") si appiattisce però sul solito repertorio dal forte fetore old school, dove qua e là spuntano dei graditi riferimenti ai grandi Celtic Frost, andando ad anticipare quella che sarebbe stata l'involuzione successiva della band.

(Voto: 6,5)

"The Age of Nero" (2008)

Quasi inaspettatamente i Satyricon tornano a pestare (con l'opener violentissima "Commando" che riscopre persino il blast-beat), indurendosi e tornando in scena con un album quadrato, compatto, asciutto, privo di sbavature ed inutili dispersioni di energie. Alla luce dei difetti dei due (tre...) album precedenti, questa potrebbe essere una buona notizia, peccato che, imboccando questa strada, si siano perduti tutti quei guizzi di genio che avevano illuminato, seppur a sprazzi, il cammino dei Nostri nel recente passato. Un indurimento dei suoni nel 2008, inoltre, non coincide per i Satyricon con un ritorno ai fasti del black metal degli anni d'oro, bensì con il rafforzamento di quella manifestazione di intenti nel voler tributare quelle band che, a cavallo fra anni ottanta e novanta, prepararono la strada al black metal. Fra riffoni e doppia cassa in stile Morbid Angel e sontuosi passaggi atmosferici ereditati dalla visione artistica dei Celtic Frost e dei Bathory, "The Age of Nero" si mostra un album solido e coerente, volendo un bel compendio di musica estrema in cui poter trovare sia momenti più serrati che oscuri rallentamenti, con qualche slancio progressivo che è tipico del modus operandi dell'accoppiata Satyr/Frost. A tal proposito, da sottolineare i continui richiami ad una band come i Coroner (la voce digrignante di Satyr li ricorda spesso), cosa che non dovrebbe stupire più di tanto, visto che oramai i Satyricon suonano una malefica forma di thrash metal, inasprita a tratti da virate death/black, smussata in altri da passaggi più ragionati. Peccato che la personalità della band, più che altro interessata a seguire le gesta dei propri antenati, in questa operazione ci risulti un po' appannata. Il risultato è che non emergeranno episodi degni di nota (potremmo citare solo "Black Crow on a Tombstone", la più diretta ed orecchiabile) e che risulteranno drasticamente ridotte quelle pulsioni punk e black'n'roll che nel nuovo corso della band erano servite, talvolta, a smorzare la "seriosità” metal" e ad offrire utili variatio per gettare sale su pietanze altresì un po' insapori.

(Voto: 5,5)

"Satyricon" (2013)

Quando una band in fase discendente decide di dare il proprio nome al titolo di un album, può significare solo due cose: o ci troviamo al cospetto di un capolavoro capace di rilanciare un'intera carriera, oppure di artisti ormai alla frutta e a corto di idee. Pur non essendo "Satyricon" un passo falso totale, di sicuro non è quel capolavoro di cui la band aveva bisogno per rialzare le quotazioni di un nome in altre epoche glorioso. Con questo ottavo full-lenght Satyr gioca la carta del sound lento ed evocativo, ed in effetti percepiamo un vago ritorno alle atmosfere epiche ed evocative degli esordi, a scapito dell'approccio thrash/death abbracciato più recentemente. La chitarra solenne dell'introduttiva strumentale "Voice of Shadows", con tanto di tamburo rituale a scandire i tempi, è il biglietto da visita ideale per comprendere i contenuti di questo album di approccio sostanzialmente doom, via via rischiarato da tastiere e chitarre acide di estrazione seventies. La doppia cassa imperante richiama ancora i Morbid Angel, come del resto la maestosità dei riff, ed infatti spesso vengono in mente le manifestazioni più atmosferiche dell’Angelo Morboso. Sebbene il risultato sia nel complesso un po' prolisso (poche idee, semplici e ripetute allo sfinimento), si registra con piacere il ritorno di qualche episodio più facilmente memorizzabile, come la ballata blues/western (?!?) "Phoenix", marchiata dalla voce magnetica (molto in stile Nick Cave) del cantautore norvegese Sivert Hoyem (già leader dei Madrugada), oppure i tre minuti di "Nekrohaven" che ci riconsegna quei Satyricon spacconi che un po' ci mancavano. Anche le divagazioni prog-psichedeliche della lunga "The Infinity of Time and Space" non ci dispiacciono, ma nel complesso l'album non è altro che l'evoluzione melodica e dilatata del suo monolitico predecessore. Con esso la band dimostra di guardare al popolo metallico piuttosto che ad un pubblico più ampio. Cosa che da un lato fa onore al buon Satyr (fra l'altro ottimo il suo lavoro dietro al mixer), ma che dall'altro certifica un disorientamento che di album in album si è fatto sempre più evidente.

(Voto: 6)

Eccoci dunque a definire la scaletta di “Now, Parakul”, l'album che i Saryricon avrebbero dovuto scrivere negli ultimi quindici anni di carriera:

"Fuel for Hatred" ("Volcano")

"The Pentagrams Burns" (Now, Diabolical)

"Black Crow on a Tombstone" ("The Age of Nero")

"Phoenix" ("Satyricon")

"K.I.N.G." ("Now, Diabolical")

"Repined Bastard Nation" ("Volcano")

"The Infinity of Time and Space" ("Satyricon")

"Black Lava" ("Volcano")

Insomma, questa è la deludente storia di una band che, contrariamente ad altre realtà coeve (penso ad Enslaved e all’ex Emperor, Ihshan), non è riuscita dopo gli anni novanta a trovare la quadratura del cerchio. Peccato (ancora una volta!), perché i Satyricon, prima di molti altri, avevano compreso la freschezza e il potenziale di gradimento del black metal, l'appeal che come genere avrebbe avuto nei circoli intellettuali e fra le nuove generazioni: l'idea di verniciarlo a nuovo e renderlo più leggero e fruibile, appellandosi ai numi del rock'n'roll, non era stata una cattiva pensata. Perché prima di tutti gli altri i Satyricon avevano capito che con il black metal si poteva trombare: mi auguro che questi quattro album siano serviti almeno  a Satyr per rimorchiare un po' di più a fine concerto (puzzo di ascelle di Frost permettendo...).