"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

13 ago 2017

VISIONS FROM WACKEN 2017: MAX & IGGOR CAVALERA VS EMPEROR



Anche quest'anno c'è stato Wacken ed anche quest'anno noi non c'eravamo. Ma due parole ci teniamo comunque a spenderle, sebbene le nostre impressioni non siano maturate in mezzo alla folla urlante, ma comodamente seduti sul divano di casa nostra con il PC in grembo.

Fra i tanti nomi a disposizione abbiamo scelto i brasilianissimi fratelli Cavalera e i norvegesi Emperor: dal sud del mondo fino alle soglie del Polo Nord, due entità che hanno saputo scrivere grandi e durevoli pagine del metal e che oggi andiamo a celebrare attraverso queste performance così lontane e così vicine, così diverse e così egualmente emozionanti. 
Ad accomunare le due esibizioni è la riproposizione per intero di due album seminali. Per i carioca si è trattato di portare avanti uno show che era stato avviato l'anno scorso per festeggiare i venti anni dall'uscita del classico dei Sepultura "Roots" ("Max & Iggor Cavalera: Return To Roots", appunto). Ancora più succulenta, in quanto maggiormente esclusiva, la proposta dei norvegesi, che per pochissime date si sono riuniti in occasione del ventennale di "Anthems to the Welkin at Dusk" (pochi anni fa, sempre a Wacken, si era tenuto una commemorazione analoga per il ventennale del mitico debutto "In the Nightside Eclipse").

Quando i Cavalera montano sul palco il sole risplende ancora nel cielo. Non so perché le panoramiche dall'alto dei concerti pomeridiani mi hanno sempre comunicato un senso di desolazione, forse perché è tutto così evidente, trasparente e il fascino della musica, altresì alimentato dalle tenebre, si attenua innanzi al dettaglio, come il tizio che si scaccola o quello che sbadiglia. Però per un album "amazzonico" come "Roots" il sole cocente di questo 5 agosto ci sta benissimo.

E' subito "Roots Bloody Roots", ma quello che doveva essere sulla carta il brano simbolo, l'apice della giornata, non mi impressiona in modo particolare. La giudicherei una partenza un po' fiacca, con un Igor che picchia con onestà, ma che francamente non si rivela quella furia tribale che mi figuravo. Ma del resto gli anni passano per tutti, compreso il grande (in tutti sensi) Max. Ne hanno viste quelle fauci di bistecche: stazza imponente, giacchetto lercio e pieno di toppe e spille in classico punk style, capelli rasta talmente compatti da formare nel retro un conglomerato che sembra una grossa radice (roots?) di ginger, chitarra con fantasia camouflage ed asta del microfono adornata con cartucce e pallottole. Stesa fieramente alle spalle del Gingerone l'immancabile bandiera del Brasile, mentre sullo sfondo una grafica che richiama la copertina di "Roots" con due indios a rappresentare la coppia di fratelli.

Tutt'altra scena è quella che vede gli Emperor protagonisti. Per loro è già notte (siamo alla sera prima, quella del 4 agosto) e ciò giova ovviamente all'atmosfera generale. Soffuse luci verdastre richiamano cromaticamente i temi predominanti della copertina dell'album stasera celebrato, nonché l'immaginario "metafisico" della band: una suggestiva cornice che talvolta muterà verso l'azzurrino (evocando invece la cover di "In the Nightside Eclipse") e via via verrà sconvolta da detonazioni pirotecniche.

Dagli amplificatori fuoriesce una versione registrata di "Alsvartr (The Oath)", l'intro dell'album, durante la quale fanno ordinatamente il loro ingresso i membri della band. Ihshan più che il frontman di una black metal band sembra un giovane professore universitario, con i suoi occhiali (ma si è mai visto un cantante black in occhiali da vista??), barba curata, capelli pettinati all'indietro e camicia. Ovviamente niente trucco e borchie, si parla di gente seria, ma del resto non ci stupiamo se pensiamo al virtuoso cammino intrapreso dal musicista, da diversi anni alle prese con un raffinato mix di prog, avanguardia e metal estremo. Anche Samoth, che contrariamente al compare ha perseguito la via della brutalità tout court con gli Zyklon, detiene il phisique du role degno della fama della band per cui è divenuto famoso: lunga criniera, barba altrettanto lunga, sguardo torvo ma intelligente, movimenti posati ma imponenti. A chiedere la magica triade che costituì il nucleo fondamentale degli Emperor al momento del loro scioglimento, arriva Trym che siede diligentemente dietro al drumkit: capello corto e fare scocciato, ma un mostro di bravura che detterà alla grande i tempi della serata, compiendo cose fantasmagoriche e picchiando come un forsennato con la tranquillità di un impiegato postale che a fine giornata mette timbri sulle raccomandate. Completano l'assetto il bassista di turno ed un tastierista che si rivelerà fondamentale dietro al microfono (bella la sua timbrica cristallina che ricorda quella dell'arcturusiano Vortex), dando man forte ad Ihsahn sul fronte del canto pulito.

I fratelli Cavalera (suvvia, chiamiamoli pure Sepultura!) sono, a guardar bene, un ospite strano per un festival purista come Wacken, roccaforte del metallo più duro ed incontaminato. E di fatto, nonostante il peso specifico (in tutti i sensi) di chi sta sul palco, la gente (una folla oceanica) appare sulle prime assai distaccata. Ci vorrà tutto il carisma di "zio" Max a scaldare l'ambiente: un "assedio" porta a porta, il suo, volto ad espugnare le reticenze dell'ultimo scettico con i Grave Digger ancora nel cervello. Già in "Attitude" il buon Max tenta il siparietto dello strumento etnico, ma ancora non basta. In "Ratamahatta" molla la chitarra e i primi indugi si iniziano a rompere. In più circostanze Max vorrà avere le mani libere per muoversi libero ed aizzare il pubblico, lasciando così grandi spazi al secondo chitarrista, che se certo non può rivaleggiare con un Andreas Kisser, regge bene il gioco, con riff d'impatto e un gran lavoro di wah wah.

Un set all'insegna del cuore e dell'approssimazione, insomma, in linea, come prevedibile, con lo spirito dei Soulfly, dove si conserva, anzi si esaspera, tutta l'urgenza punk/hardcore che da sempre costituisce un ingrediente fondamentale nel Sepultura sound. Ma questa sorta di "Roots" 3.0 funziona decisamente bene, trainato dall'entusiasmo incontenibile di Max che dimostra oggi le ragioni per cui è diventato famoso. Il growl si è forse spento nel corso del tempo, sostituto da declamazioni ed urla belluine che bruciano in gola come se non vi fosse un domani, ma il carisma rimane intatto: il Nostro grida, incita, batte le mani, pomperà continuamente il fratello, indosserà una maglia dei Bathory, accennerà con la chitarra "Iron Man" invocando il coro degli astanti, si armerà di bacchette e picchierà duro sui tamburi in compagnia del fratello nell'immancabile break etnico, il tutto condito da una pioggia di "danke schoen Uacken!" (ma non l'ha detto nessuno a quel cosmopolitone di Cavalera che la W in tedesco si pronuncia V e non U?). Insomma, farà di tutto e di più per trasformare Wacken in una grande festa collettiva, fra pogo, spintoni, handbanging, mani al cielo e ragazze bellissime sballottate in aria da forti braccia. Chiude le danze una violentissima "Dictatorshit", ribattezzata per l'occasione "Dictator Scheisse" (del resto il vocabolario tedesco del Gingerone è questo): il canto di Max è oramai un rauco screaming, mentre Igor, che nel frattempo era entrato nella parte, corre velocissimo e paradossalmente lo trovo più a suo agio in questi assalti frontali che in veste tribale.

Non hanno bisogno invece di dimenarsi per accattivarsi l'attenzione del pubblico gli Emperor, in quanto sarà la musica a parlare per loro. L'acustica rende giustizia alla complessità della proposta dell'Imperatore. La tastiere in secondo piano, paradossalmente, ci fanno capire come esse non siano poi così fondamentali per il sound degli Emperor, che forse abbiamo etichettato troppo frettolosamente come symphonic black metal. Stasera ad emergere sarà il grande lavoro delle due chitarre, originariamente un po' sacrificate su disco per via di una produzione un po' confusionaria che non sempre sapeva integrare, negli svariati cambi di tempo ed ambientazioni, gli intrecci di chitarre con tastiere e voce. Ebbene, stasera Wacken ci racconta una storia diversa: quella di un album magnifico, attuale, fresco, reso alla perfezione in tutte le sue sfumature da una band prodigiosa e decisamente in forma. Trym è un miracolo di potenza e precisione: il suo drumming marziale conferisce regolarità ed ordine alle multiformi trame melodiche di Samoth ed Ihsahn. Quest'ultimo bercia e declama con una seraficità che è consona a chi è al bar a sfogliare la Gazzetta dello Sport. Voce potentissima la sua, sia sul fronte dello screaming che su quello del pulito, cosa che crea uno strano contrasto con i rari momenti in cui, in modo straordinariamente educato, si rivolge al pubblico per presentare i brani, aggirandosi sul palco con un ghigno di soddisfazione che sembra dire: "Ma che musica vi sto suonando? Ma sarò il migliore? Avevate forse dei dubbi?".

La prestazione è del resto impeccabile da parte di tutti, turnisti compresi: una performance che crescerà di intensità di brano in brano, fino a toccare livelli stellari nei due pezzi finali della prima parte del set. Mi riferisco alla lunga e tortuosa "With Strenght I Burn", dettata da epici tempi medi e costellata dai sublimi intrecci vocali di Ihsahn e del tastierista; le trame chitarristiche sono da urlo ed azzeccata si rivelerà l'idea di sostituire l'effetto fading out (con cui si dissolveva originariamente il brano) con il prolungamento di una singola nota, per poi riattaccare con la struggente "The Wanderer", egregia appendice strumentale in cui oggi riconosco molto metal che verrà (Opeth in prima fila). Un uno-due che fa "molto post-rock": diviene infatti evidente come gli Emperor, in anni non sospetti e nascosti dietro la loro grandiosità sinfonica, ragionavano fuori dagli schemi e suonavano musica realmente progressiva, preparando il terreno per quel post black metal che dieci, quindici anni più tardi guarderà a loro con grande devozione.

Torniamo ai Seps Brothers. È il momento dei bis e i Nostri si gettano in un furioso medley che vede fuse insieme "Beneath the Remains" (addirittura!), "Desperate Cry" ed "Orgasmatron". E' l'occasione quindi per celebrare il grande Lemmy, il quale viene tributato con un'altra cover (ma non sarà troppo, considerato tutto quel ben di Dio che poteva offrire il repertorio dei Sepultura?? Del resto è anche questo un ritorno alle radici...): una versione al fulmicotone di "Aces of Spades" con Max ancora una volta scatenato e svincolato dalle sei corde. Si chiude il cerchio tornando al principio con la riproposizione di "Roots Bloody Roots", ma quando ti saresti aspettato un reprise in pompa magna, ecco che i Nostri ci offrono del brano una inaspettata versione sparatissima, in linea con quel rigurgito hardcore/death che era stato il progetto Cavalera Conspiracy (dal quale, non a caso, vengono pescati i due turnisti Marc Rizzo e Tony Campos). L'effetto è sulle prime straniante, il fiato è corto e sembra oramai di assistere ad un concerto punk di una band underground in un centro sociale, ma dopo l'escalation di violenza dell'ultima ora e mezza, tutto appare lecito: paradossalmente saranno queste scene di gratuita brutalità finale a rimanermi maggiormente impresse nella mente.

I bis degli Emperor saranno invece pura poesia. "Curse You All Men!" non è certo il brano che ti aspetti, e seppur non sia alcunché di indispensabile (come non lo è "IX Equilibrium" e tutto ciò che è stato pubblicato successivamente a nome Emperor), essa gira bene nelle orecchie, risultando indispensabile per allentare un attimo la tensione e prepararsi al gran finale dedicato al mitico "In the Nightside Eclipse", rappresentato degnamente da una accoppiata di brani fenomenali come "Iam the Black Wizards" e "Inno a Satana". Ogni descrizione di quanto succederà sul palco è superflua e limitativa. Concentriamoci invece su due dettagli emblematici. Il primo è il pubblico. E' veramente una cosa stranissima vedere così tanta gente assistere ad un concerto black metal, una folla oceanica che potremmo concepire per anfitrioni come Manowar o Iron Maiden: ragazzi e ragazze di ogni nazionalità ed estrazione sociale con volti estasiati, con espressioni trasognate, che accompagnano con la testa i cambi di tempo, che cantano a memoria i testi di questi brani incantabili. L'impressione è che si stia celebrando un grandioso rito religioso: da sottolineare l'idea di estasi-panico che emana l'esecuzione della seconda parte, quella lenta e solenne, di "I am the Black Wizards". Magie di Wacken. L'altro dettaglio da sottolineare sono le parole che introducono "Inno a Satana". Ihsahn, con il suo consueto garbo, prima di scatenare nuovamente l'Inferno, desidera ricordarci la fortuna e la bellezza di essere liberi, liberi di essere tutti qui insieme stasera: l'inno a Satana dei norvegesi non è altro che un inno alla Libertà come lo intendeva Giosuè Carducci. Mentre incalzano in filodiffusione le orchestrazioni di "Opus a Satana", i musicisti soddisfatti si godono la standing ovation a loro riservata e con l'inchino di Ihsahn si conclude un'altra bella pagina di Wacken: un festival che si conferma, per professionalità ed organizzazione, il miglior appuntamento live in assoluto a beneficio del popolo metallico.

Quanto agli artisti che abbiamo deciso di analizzare oggi, possiamo dire che in modo diverso e complementare rappresentano il volto del metal che più ci piace. I fratelli Cavalera accusano forse di più il peso degli anni e la stanchezza di una proposta che nel tempo ha perso la sua carica rivoluzionaria, adagiandosi sulla immediatezza hardcore. Da fenomeno di rottura nel corso degli anni novanta (destabilizzante da un lato e creatore da un altro - si pensi al fenomeno nu-metal che di lì a poco sarebbe esploso in tutto il suo fulgore), l'arte dei fratelli Cavalera è come rimasta relegata al passato, fissata ad un’epoca ben precisa, forse perché il successo fu immediato e non oggetto di lenta rivalutazione. Ma laddove non arrivano la tecnica e le idee, arrivano il cuore e la passione.

Gli Emperor, invece, nati e sviluppati in un ambiente di nicchia quale è stato il black metal, e quindi baciati da un successo minore, suonano oggi innegabilmente più freschi, avendo essi gettato semi che sono germogliati dopo la loro scomparsa: precorsero i tempi, innescando un percorso di ricerca nell'essenza progressivo e raccogliendo tardivamente quella gloria che oggi li riconosce come un'entità seminale non solo nei circoli del metallo nero.

Entrambe queste band straordinarie, i primi con le loro istanze antisistema e terzomondiste, i secondi con il loro elitarismo e la loro tendenza al superamento dell’Io, sono stati parimenti rivoluzionari e portatori di un'ideale di libertà, sia a livello sociale che a livello individuale, che non dobbiamo mai dimenticare.

Danke schoen Uacken!