"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

13 giu 2017

LA VERITA' SUI FATES WARNING: LIVE AT UNDERWORLD, LONDON - 02/06/2017



Certe volte i sogni si realizzano in ritardo, quando praticamente non sono più sogni e si sono già trasformati in qualcos'altro: un conto da risolvere con il passato, quasi una formalità.

Vent'anni fa vedere i Fates Warning dal vivo sarebbe stata per me una gioia incommensurabile, oggi non so: mi sento di presenziare quasi per dovere. Perlomeno è un venerdì: venerdì 2 giugno per l'esattezza.

Scenario uno:

L'idea è di presentarsi puntuali alle 6:00pm, all'apertura delle porte, perché l'Underworld è cool ed accogliente quanto volete, ma rimane un locale di modeste dimensioni. Potranno quelle quattro oscure pareti contenere l’entusiasmo dei fan che accorreranno per assistere al concerto dei grandi Fates Warning?

Altro motivo di preoccupazione è l'acustica del locale. Conosco l'Underworld, avendoci visto una miriade di concerti, e so che, nonostante la sua vocazione "rock" (dark, punk, neofolk, industrial, persino metal estremo), non è un posto molto adatto per musica tecnica e ben suonata. Un luogo dove appena si sfiora una batteria l'effetto pentola si fa prepotente: come potersi immaginare, in questo contesto, una band che fa della complessità ritmica una caratteristica fondante del proprio sound?

Ma la cosa che più mi rende perplesso è la seguente: da grande amante dei Fates Warning quale sono stato in passato (non li seguo più da molti anni e gli album post-reunion non mi hanno entusiasmato), ho amato il loro linguaggio, i loro suoni, le loro atmosfere, il loro mood, la loro capacità di esprimere emozioni, ma non ho mai amato nessun loro brano in particolare. Tanti non me li ricordo neppure (nonostante abbia ascoltato i loro album milioni di volte) e, a dirla tutta, quei brani che i Nostri sono soliti portare in tournée non sono neppure i miei preferiti.

E poi Zonder non c'è più, Mark Zonder è uscito dal gruppo: assenza non da poco, la sua, in questa fase di resurrezione: ho sempre adorato questo batterista, ho iniziato ad apprezzare per davvero i Fates Warning quando è entrato in formazione e ho smesso di ascoltarli quando se ne è andato. Non lo ritengo solo un musicista unico, dotato di una tecnica superlativa, una classe sopraffina ed uno stile inimitabile, ma anche un elemento fondante del Fates Warning sound. Sebbene chi lo sostituirà è indubbiamente all’altezza della situazione, per me non sarà la stessa cosa.

Tutte le aspettative finiscono per poggiare, pertanto, su una presunta ed indefinibile quanto vaga "magia complessiva" che si presuppone la band sappia emanare. Più ombre che luci (per dirla à la Fates Warning) mi accompagnano dunque verso l'evento. Ma le cose andranno diversamente...

Scenario due:

Ad un quarto alle 8:00pm mi presento ubriaco fradicio all'ingresso dell'Underworld. Mi ero imposto la sobrietà per meglio apprezzare i preziosismi dei Fates, ma una imprevista bevuta con colleghi ha all'ultimo minuto scombinato i piani. Poco male, il temuto sold out (risate in sottofondo) non si è lontanamente palesato: all'ingresso non c'è nessuno, la bigliettaia mi accoglie come se il suo posto di lavoro dipendesse dal mio biglietto, come se da esso traesse senso la sua esistenza.

Sono molto felice, l'alcool fa prevalere i lati positivi della faccenda, in fondo vedrò una band storica a cui sono molto legato: sarà come una serata con vecchi amici. E laddove vi saranno delle pecche, verranno in soccorso i ricordi. Altro buona notiozia: i Riven (gruppo spalla di cui non me ne fregava un cazzo) hanno già suonato e i Fates attaccheranno in meno di mezz'ora: il tempo per ambientarmi e ribadire con un'altra birra. Ma chi mi ammazza?

Il tasso di nerditudine è alto, altissimo, sono circondato da bambolotti occhialuti con vistosi tic nervosi: me li immagino già, durante l’esibizione, a contare le singole battute di batteria, magari emettendo versi futuristi tipo "tu-tu-tà-z-z-ta-tù". Rischio pogo azzerato, compensato dal puzzo di ascelle, ma va bene così. Stasera mi sento veramente simpatico, avverto la gente che ci sarà da far casino, perché ci sono i grandi Fates Warning, mica i Dream Theater, ma nessuno ride e qualcuno si guarda intorno preoccupato.

Con qualche (imperdonabile) minuto di ritardo, la band si presenta sul palco e l'atmosfera è quella della sagra della salsiccia a Portorico, con in prima fila un Ray Alder in maglietta e jeans che sembra aver appena staccato dal turno di magazziniere. Sul secondo chitarrista (un ragassuolo pallido con poca ciccia e tanti brufoli) e Joey Vera in versione ultimo dei moicani (ma perché???) preferiamo non esprimerci. L'aspetto da pastore sardo di Jim Matheos di sicuro non tira su l'indice di gradevolezza del quadretto, ma devo ammettere che è perlomeno rassicurante: sarà lui (perennemente concentrato sul suo strumento) il faro che illuminerà la serata.

Si parte soft con "From the Rooftops" (l’opener dell’ultimo album), ma superato l’istante di esaltazione seguito all'ingresso della band, da quando Jarzonbeck inizia a smitragliare (Mark, ma dove sei?!?), ho già come una strana impressione, come se mi stessi annoiando. Voglio analizzare questa sensazione e parto dalla semplice constatazione che in tutti i live-report dei Fates Warning post reunion che ho letto in questi anni, c'è come un fil rouge che li accomuna: un senso di incompletezza, "di-qualcosa-che-non-va" che il recensore di turno affibbia di volta in volta ai fattori più disparati, ma mai ai Fates Warning. Grandissimi Fates Warning, indiscutibili Fates Warning, però perché suonano in posti così piccoli?, perché ci va così poca gente a vederli?, e perché i suoni non sono mai all'altezza? Ma se i suoni sono da pub, ma se ogni volta i Fates Warning suonano in posti piccoli davanti a poca gente, forse un po' della colpa è anche loro. Probabilmente Matheos è troppo incentrato sul proprio strumento per battere il pugno sul tavolo ed imporre al fonico di amalgamare i suoni come si deve. O almeno per costringere Adler ad indossare un paio di pantaloni di pelle.

Introspettivi, magici, indiscutibili, si diceva, e poi Matheos è fenomenale, ed Adler, a scapito del monociglio, canta come su disco. Però io stasera l'ho capito di che pasta sono fatti i Fates Warning: essi sono come quei ragazzi di cuore, buoni, intelligenti, a tratti perfino brillanti e neppure brutti di cui sovente le ragazze si innamorano, ma che, nonostante le ripetute suppliche da parte delle stesse, continuano a vestirsi in tuta Diadora e mocassini, e a non spazzolarsi la forfora dalle spalle.

Come secondo pezzo viene subito sparata "Life in Still Water" (direttamente dal masterpieceParallels”) che però, sentita dal vivo, mi sembra "Operation: Mindcrime" al rallentatore. Esprimo questo mi pensiero, ma nemmeno questa battuta viene gradita dai miei compagni di metro quadrato. Con "One" (che non mi ha mai fatto impazzire, ma stasera gira bene) accenno un po' di pogo, ma mi sembra di pogare nel nulla. La sezione III di "A Pleasant Shade of Gray" mi fa capire che cerco pateticamente di emozionarmi, ma che non ci riesco. Con "Seven Stars" ne approfitto per prendere una birra, ma quando torno sotto il palco non c'è più nessuno degli orsetti del cuore con cui avevo condiviso la prima parte del concerto.

Si susseguono brani che non riconosco ("SOS", "A Handful of Doubt" "Firefly"), ma che mi pare di aver ascoltato migliaia di volte. Scusate se non mi soffermo sui dettagli, ma la melassa alderiana uniforma queste canzoni fino a renderle un flusso assai omogeneo, privo di sussulti, dove però si possono apprezzare quelle influenze tooliane che hanno sedotto Matheos da un certo punto del suo percorso in poi.

Viene annunciato un altro brano dell'ultimo album e io mi lascerò scappare un gemito di dolore, ma sono io il coglione, perché vivo di riflessi automatici, non capendo che i pezzi nuovi valgono almeno quanto quelli vecchi. Anzi, paradossalmente, i brani nuovi suonano meglio stasera, probabilmente perché calibrati sul drumming più "ordinario" di Bobby Jarzonbeck (Mark, ma dove cazzo sei?!?). Prontamente un tipo accanto a me approfitta della mia smorfia per spiegarmi che invero quello appena annunciato è il miglior brano dei Fates Warning. Attacca "The Light and the Shade of Things" ed in effetti è tanta roba, forse il miglior momento della serata, anche solo per il fatto che dura una decina di minuti e che nel suo continuo saliscendi emotivo sa regalare qualche momento memorabile.

Ecco il clic! Quando meno te lo aspetti, proprio come spesso mi succede negli album dei Fates Warning, giunge il clic che ti fa rivalutare tutto. Nella sua prima metà un album dei Fates Warning lo vivi con fare circospetto, come un fachiro inginocchiato sul letto di spine che teme una retata della Guardia di Finanza. Poi ad un certo punto scatta un clic e ogni cosa ti sembra diversa. La cosa curiosa è che anche dal vivo si ha questa identica sensazione: questo clic che ci schiude lo scrigno delle emozioni, come se le orecchie avessero bisogno di abituarsi per distinguere quei suoni un po' sempre uguali a se stessi.

Siamo dunque in discesa, nel senso che il cammino si fa più semplice, tanto che ci pare di correre a rotta di collo verso il finale. E la cosa, a questo punto, un po' dispiace. Si entra nel vivo dei "classici", con altre due sezioni di "A Pleasant Shade of Gray" (certo però non si capisce perché non abbiano un nome proprio se poi vengono proposte come canzoni a se stanti). Fatto sta che avremo la celeberrima parentesi acustica, con tanto di cambio di chitarra in corsa per Matheos (per eseguire l’assolo) a rappresentare il momento di massimo dinamismo della serata.

Poi un salto nel passato con "The Ivory Gate Of Dreams: VII. Acquiescence" (addirittura da "No Exit", l'album in cui esordì Alder dietro al microfono) ed infine torna "Parallels" con "The Eleventh Hour" (altro momento top dell'esibizione) e "Points of View", che rompe le ultime catene e sdogana un pubblico finalmente saltante e cantante. Peccato che stia tutto per finire, ora che l'ambiente si era scaldato a dovere: veloce uscita dal palco e poi altrettanto veloce rientro con l'immancabile "Monument", che, tolta la brillante fase strumentale al suo interno, continuo a pensare che sia una canzone come tante altre dei Fates Warning, peraltro nemmeno la migliore.

La band se ne va e, con grande umiltà, stringe le mani ai fortunati in prime fila: un "gesto antico" che avevo imparato a dimenticare e che apprezzo enormemente, soprattutto oggi, in questa era glaciale che è l’epoca che stiamo vivendo.

A questo punto, però, ora che le luci gialle si sono accese e la gente si avvia all'uscita, c'è da guardarsi nelle palle degli occhi ed ammettere una scomoda verità: i Fates Warning non sono poi così fantastici dal vivo. Possiamo anche ripetere per la milionesima volta che in un'altra location, con altri suoni, potevano rendere meglio. Ma sarebbe come mentire a noi stessi. I Nostri apparentemente non hanno colpe, avendo suonato da veri professionisti. Qui il discorso va ampliato, esteso oltre alla dimensione live. Quel che non torna nei Fates Warning è la stessa cosa che non torna nei loro album: l'essenza stessa dei Fates Warning, ossia una monotonia di fondo che li tinge di grigio (per dirla à la Fates Warning, appunto), un grigiore che conferisce fascino, ma che li rende anche un po' piatti.

Torniamo sul palcoscenico: non pretendo che Adler si metta a saltare e a battere le mani, ma qualche accorgimento in sede live va preso, perché non basta limitarsi ad un best of ben eseguito, quando non hai un repertorio da cui estrapolare un vero best of. E di certo non aiuta poggiare tutte le attrattive sceniche sui gesti da “telenovela brasiliana” di Alder o sulle impercettibili variazioni di inclinazione dei capelli di Matheos (una colonna verticale di riccioli che sembrano fatti di cartapesta), piegato sul suo strumento.

I Porcupine Tree, prima che Wilson divenisse un fenomeno di massa, potrebbero offrire qualche utile spunto. Anzitutto una scaletta flessibile che muta drasticamente di tour in tour, andando a valorizzare di volta in volta quello che la band è e si sente di essere in quella particolare fase della carriera. Facendoti peraltro credere, a te pubblico, di assistere ad un evento unico, con pochi classici a fare da contorno ad un nucleo emozionale (ed emozionante) fatto di perle e rarità ripescate da chissà dove. E senza la paura di cimentarsi nei brani più lunghi e complessi, magari per l'occasione ulteriormente estesi tramite jam ragionate, o sviluppi scritti appositamente per la dimensione live. E’ indubbiamente importante anche sapersi porre nei confronti del pubblico in modo intimo senza risultare freddi automi incollati agli strumenti: insomma, maggiore scioltezza e disinvoltura anche nel tirarsela. Ma soprattutto, diviene determinante la capacità di creare momenti di grande suggestione, climax che sappiano elevarsi dal resto e ti fanno tornare a casa con la sensazione di aver visto, sentito, provato qualcosa.

Proprio quando non hai un repertorio fatto di brani memorabili, ma di album memorabili, diviene doveroso disporre i tasselli del mosaico in modo più accattivante. Che dirvi, cari Fates Warning, comprate due sgabelli e fate tre pezzi acustici di fila; oppure montate due luci un minimo più atmosferiche; o prendete un cazzo di brano di dieci minuti ed allungate il brodo fino a farlo diventare di venti, anche a costo di qualche sbavatura (che Matheos mi fulmini...).

Ma la cosa più ovvia, sarebbe stata riprodurre "A Pleasant Shade of Gray" per intero, visto che quest'anno festeggiamo venti anni tondi tondi dall'uscita di quel capolavoro del prog-metal: una scelta quanto mai vincente in un periodo in cui si tende a celebrare anche una scoreggia venuta bene...