"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 giu 2017

LA CLASSIFICA DEI DIECI MIGLIORI "CANTAUTORI" DEL METAL


Nel metal possiamo imbatterci in musicisti prodigiosi, ma è indubbio che una caratteristica importante di questo genere è il lavoro di squadra. Soprattutto per le esigenze di un wall of sound che richiede perlomeno una chitarra, un basso, una batteria e, ovviamente, una voce ad animare il tutto. La sfida che ci siamo posti questa volta è stata ardua: individuare dieci cantautori nel metal.
Per cantautore, in questo caso, non bisogna pensare al classico "uomo con la chitarra" (tutt'al più munito di armonica a bocca). Nel metal non si fugge dal muro del suono, si diceva, e per questo abbiamo declinato il concetto di cantautorato nella dimensione "rumorosa" del metal, identificando come cantautori quegli artisti che fossero dotati di personalità complesse e che, spesso incarnando il ruolo sia di cantante che quello di musicista, hanno saputo esprimere una propria poetica, esternare un "mondo interiore" fatto di tematiche, simbolismi, ossessioni ricorrenti: in altre parole, artisti che hanno dato anima e corpo ad una musica che è andata nel tempo ad identificarsi con loro e solamente con loro, al di là del genere interpretato. Anzi, spesso il muoversi al di fuori dei cliché ha determinato proprio il fatto che nuovi cliché e nuovi generi venissero a definirsi.
Se non avete le idee chiare, fate prima ad andare a vedere i dieci nomi da noi selezionati!
10) Ihshan
Partiamo con il leader degli Emperor, leadership che, almeno in principio, era spartita con Samoth: un connubio di forze (ma ci butterei dentro anche il bel drumming di Faust) che fa pensare al capolavoro "In the Nightside Eclipse" come al frutto del lavoro di una grande squadra. I suoni confusi, inoltre, donavano al tutto un fascino sinfonico che un po' occultava l'ego artistico di Ihsahn, che sarebbe emerso successivamente in tutta la sua ambizione. Già gli ultimi album degli Emperor potevano definirsi sue prove soliste, ma sarà nella sua carriera in solitaria (una sequenza di lavori strabilianti) che i tratti della sua personalità emergeranno con maggiore evidenza. Lo stile abbracciato sarà una miscela di elementi che potremmo definire prog: un prog nella sua più libera e nobile accezione. Quel titanismo che gli Emperor esprimevano impetuosamente a livello di black metal, lo ritroveremo in lavori raffinati che sapranno far convivere metal classico ed estremo, dark-wave, avanguardia e persino pop, il tutto filtrato da una grande personalità. Poco importa se le visioni del Nostro verranno accompagnate da un sax dissonante, da un drumming intricato o da beat elettronici: quello che è chiaro è che Ihsahn non è solo un musicista intelligente ed un raffinato regista di suoni, ma un autore dalla nitida visione artistica, lucido e vigoroso nell'assecondare il super-uomo nietzscheano che cova dentro di sé e nell’ammaestrare un mondo infestato da ambizioni prometeiche, ossessioni faustiane e, soprattutto, animato da una costante ricerca dell'Assoluto. Così bravo che gli perdoniamo quell'insopportabile voce da gallinaccio strozzato che si ostina a propinarci...

9) Johan Edlund
Probabilmente i suoi Tiamat hanno perso appeal nel corso degli anni, appiattendosi su sonorità goth-rock che hanno in qualche modo disatteso e contraddetto quelle caratteristiche che invece avevano reso la band unica ed avanti anni luce rispetto ai colleghi dell'universo doom. La "rivoluzione" dei Tiamat si è compiuta attraverso una serie graduale di passi avanti che dalle efferatezze delle origini (il ruvido black-death dell'acerbo "Sumerian Cry") hanno condotto ad un gothic-metal pregno di melodia, atmosfere sognanti, psichedelia liquida e concept raffinati (incredibile la sequenza "The Astral Sleep"-"Clouds"-"Wildhoney"). Motore primo di questa progressione è stato Johan Edlund, che, con la sua passione per i Pink Floyd e la sua indole intimista (ai tempi di "Clouds" si faceva fotografare con un fiore in mano), ha saputo mettere molto della sua persona nella musica dei Tiamat, fino a cambiare per sempre il volto del gothic-metal. E, con un album rivoluzionario come "A Deeper Kind of Slumber", da menestrello visionario si è saputo ergere ad interprete, fragile e sincero, delle proprie ossessioni (in questo caso quelle dettate da questioni di cuore, visto che si era appena lasciato dalla compagna), finendo per fare tranquillamente a meno di quello stesso metal che lo aveva partorito.

8) Peter Steele
E' buffo pensare a questo energumeno ninfomane con il pallino delle donne e del sesso (ma senza farsi mancare un po' di misoginia) come ad un cantautore, soprattutto alla luce dell'accoglienza che i Type O Negative hanno avuto ad inizio carriera (ah, la miopia di certa critica...), visti più come dei cialtroni provocatori e non per quello che si sarebbero rivelati nel corso della loro breve ma intensa carriera, ossia una delle realtà più importati ed influenti del gothic metal. Non solo per il sound originale (un crocevia di influenze stranamente assortite che vanno dai Black Sabbath ai Beatles, passando per i Cure e Neil Young), ma anche per la personalità prorompente del loro leader: al basso (possente, distorto, frastornante) oscurerà persino la chitarra, mentre con la sua caratteristica voce baritonale farà proseliti negli ambienti dark/gothic. I suoi testi intimi, pessimisti, tormentati, macabri, volti irrimediabilmente all'auto-distruzione ("My world is coming down" recitava la title-track di uno degli album più belli del TON), benché impregnati di un ruvido humour nero, verranno purtroppo coronati da una morte per overdose che puzza di suicidio lontano un miglio.

7) Mille Petrozza
Nel metal è difficile essere "cantautori", ma nel thrash, genere fisico per eccellenza, è impresa quasi impossibile. A riuscirci è questo tedescozzo della Ruhr che con i suoi Kreator aveva dettato nuovi standard di violenza nel metal degli anni ottanta, offrendo con capisaldi come "Pleasure To Kill" ed "Extreme Aggressions" più di uno spunto alle nascenti ondate di band death e black metal. Ma proprio quando egli si rese conto dell'avvenuto sorpasso (quanto a violenza e velocità) da parte delle nuove leve, ebbe l'intelligenza e l'ispirazione di rallentare e cambiare direzione, puntando su un sound più cupo entro cui far convergere le proprie riflessioni su un mondo che stava irrimediabilmente cambiando. Forti di suoni moderni, atmosfere plumbee e raggelanti suggestioni industriali, “Renewal", "Outcast" ed "Endorama" (quest'ultimo spinto persino in territori gothic, con il cortese supporto di Tilo Wolff dei Lacrimosa) sono opere che segnano una netta volontà della band nello smarcarsi dai canoni classici del thrash, che comunque i Kreator hanno sempre interpretato con personalità. Ma più che altro rappresentano il trionfo di Mille Petrozza come autore portatore di una visione del mondo ben precisa, capace di affrancarsi da quei cliché che egli stesso aveva contribuito a forgiare, per spostarsi verso ambiti più personali e complessi. Peccato che i più non se ne siano accorti e che il Nostro si vedrà presto costretto a tornare a picchiare duro, sempre comunque con grande serietà.

6) Steve Austin
E' di Nashville uno dei più originali "cantautori" del metal, ma poco ha a che fare Steve Austin con Johnny Cash e la schiera gloriosa dei folk-singer americani degli anni sessanta. Il piglio è semmai quello del "terrorista sonoro", ma il suo agire nei Today is the Day ben rende l'idea di cosa noi intendiamo per “cantautore nel metal”: una personalità debordante (in questo caso persino deragliante, ai limiti della follia) al "servizio" di una proposta assolutamente originale e difficilmente catalogabile (nella musica della band troviamo grind, death, noise, math-rock, progressive, avanguardia e sì, anche un po' di cantautorato tout court). Al centro di tutto, armato di chitarra e di un'ugola al vetriolo, troviamo proprio Austen, furente iconoclasta, genio espressionista che, in un continuo scambio di parti, incarna vittima e carnefice in un "gioco" che va a rappresentare le dinamiche perverse della nostra società. Più penetrante di così...

5) Justin Broadrick
Il chitarrista della prima formazione dei Napalm Death, nonché leader di Godflesh e poi di Jesu (non contando le collaborazioni e le esperienze collaterali, fra cui spiccano Scorn e il progetto ambient Final), è forse più vicino al mondo dei musicisti che a quello dei cantautori, in quanto la chitarra è sempre stata il fulcro del suo universo artistico. Tuttavia è innegabile che, appena il Nostro si è posto dietro al microfono, prima con i ruggiti malati dei Godflesh, poi con i vocalizzi eterei dei Jesu, egli abbia saputo edificare una visione artistica che andasse oltre quello stile di chitarra fatto di effetti, riverberi, feedback e suoni compressi e catramosi che hanno fatto letteralmente scuola negli ambienti industrial e post metal. Anzi, per certi aspetti Justin Broadrick è il padre spirituale delle sonorità post, ma se prima con i Godflesh ha dato corpo alle ossessioni del mondo industrializzato, con i Jesu (virando stilisticamente verso i lidi dello shoegaze) riuscirà anche a dar loro un'anima: quella di un'umanità ancora capace di provare emozioni e di sognare sotto la coltre asfissiante dell'alienazione urbana.

4) Dave Mustaine
Se nel thrash è difficile trovare dei cantautori, lo è ancora di più scovarli fra i primi mover, ossia quelle band che per prime, ad inizio anni ottanta, forgiarono questo nuovo genere (almeno inizialmente) basato sull'impatto fisico e dunque su un grande lavoro di squadra. Eppure, anche in questo ambito vi è una "personalità artistica" che è emersa più delle altre, una personalità di merda, lo diciamo subito: quella di Dave Mustaine. Acido, scontroso, strafottente: forse proprio queste caratteristiche hanno fatto sì che intorno al chitarrista/cantante venisse fatta sistematicamente terra bruciata. È vero, il Nostro si è potuto avvalere del contributo di musicisti superlativi, ma i Megadeth son sempre stati cosa sua, come se quella musica fosse un prolungamento della sua mente e del suo corpo. E così quei riff nervosi e vorticosi sono la diretta emissione della sua personalità spigolosa, forse dell'eroina che gli scorreva nelle vene; i testi si sviluppano senza una struttura precisa, come se fossero il livoroso soliloquio di un matto al bancone di un bar: guerra, politica, società, storie di droga e dipendenza, e tutti quei sassolini, più o meno grossi, che dovevano essere tolti dalla scarpa. Nel bene e nel male, una delle più importanti band thrash di sempre sono la voce dell'anima di questo odioso personaggio.

3) Chuck Schuldiner
Un discorso analogo può valere anche per Chuck Schuldiner e i suoi Death, con la differenza che in questo caso la pasta con cui son fatti musicista e paroliere è totalmente diversa. Spiace vedere il grande Chuck solo al terzo posto in questa classifica, ma del resto (lui che è sempre al primo posto nei nostri cuori & pensieri) per questa volta ha dovuto cedere il passo a "uomini soli" (come direbbero i Pooh), mentre il leader dei Death non ha mai potuto fare a meno di altri per dare forma alla sua arte. Però il songwriting, i testi, la direzione artistica dei Death erano tutta farina del suo sacco. Anzi, i Death erano lui. Una tecnica chitarristica che si è evoluta di album in album, uno stile che in principio ha definito un genere (il death metal, appunto) e poi, raffinandosi, fra riff sempre più chirurgici e assoli strepitosi, si è distaccato da esso, divenendo un qualcosa che non può essere definito in altro modo che come "arte schulderiana": esistenzialismo fumante, corrosivo, irrimediabilmente metallico (si vada ad ascoltare "The Sound of Perseverance" per avere un’idea di quello che stiamo affermando). Stessa cosa dicasi della voce: dal growl brutale degli esordi, allo screaming tagliente che andava a scandire come un rasoio testi affilati che esprimevano una analisi del mondo lucida, cinica, pessimista, ma al tempo stesso sofferta, come se a quell'ugola costasse dolore sentenziare quelle brucianti verità. Quanto ci manchi, Chuck!

2) Quorton
Si parlava di "uomini soli" e lui è stato probabilmente il primo uomo veramente solo nel metal. I Bathory non erano una band, ma il progetto di un uomo solo: con Ace Borje Thomas Forsberg, in arte Quorton, nasce la one-man band, modello che troverà ampia diffusione nel black metal, in particolare in terra scandinava, ma che poi verrà esportato in tutto il mondo, ovunque vi fosse un misantropo che avesse bisogno di esprimersi senza doversi per forza confrontare con altri musicisti. Il salto di qualità "cantautoriale" si ha avuto con "Blood Fire Death", album di snodo nella carriera del Nostro: qui il thrash furibondo (proto-black?) del passato veniva smussato da atmosfere evocative e pregne di pathos. Un passaggio di paradigma che si completerà con capolavori come "Hammerheart" e "Twilight of the Gods", dove i tempi si facevano cadenzati e i toni decisamente epici. Ma anche a livello lirico si compieva una rivoluzione: da testi incentrati su temi tipicamente satanici si approdava al folclore nordico (tanto che per la musica dei “nuovi” Bathory si parlerà di un vero e proprio nuovo genere, il viking). In particolare con "Twilight of the Gods", quella che possiamo definire la "svolta cantautoriale" diviene lampante: una voce pulita ma sgraziata, imperfetta, pulsante di passione che si staglia impavidamente su riff energici, ossessivi, solcati da cori odinici, arpeggi elettrici ed acustici, tratteggiando i contorni di un passato cruento e sanguinario ma pregno di significanze destinate ad estinguersi. Da qui lo sguardo nostalgico ed appassionato di Quorton: un eroe dei nostri tempi.

1) Varg Vikernes  
Sopra tutti poniamo il poeta per eccellenza del black metal e il suo progetto: Burzum. Questo ragazzo (all’anagrafe Kristian Vikernes), poco più di un adolescente, non si macchierà solo di varie malefatte e di un efferato omicidio, ma si rivelerà autore di opere innovative, destinate a cambiare il volto del metal estremo nelle decadi a seguire. La sua mente malata, contorta, dominata da logiche proprie, condusse a gesti inconsulti, ma portava a vedere le cose sotto una luce diversa. Foreste, solitudine, uno sguardo straziante verso un passato irrecuperabile: una visione struggente e malinconica, quella dell'autore, che tuttavia non indugia su piagnistei e tendenze autodistruttive, ergendosi piuttosto fiera e forte di incrollabili (per quanti opinabili) certezze. Vikernes si fece carico di tutti gli strumenti, concentrandosi principalmente sulla definizione di uno stile chitarristico che potremmo definire espressionista, poggiante su arpeggi, riff ossessivi e linee melodiche da brividi: un insieme di cose che trova il suo apice in un album spesso non apprezzato a dovere come "Filosofem" (un’opera da vedere indubbiamente come uno dei saggi sul malessere più vividi e laceranti dell'intera musica “popolare” del Novecento). Ma tutta l'arte burzumiana si è sorretta su una manciata di elementi fondamentali: un approccio minimalista (pochi i cambi di ambientazione rispetto alla lunghezza dei brani) che sfociava nell'ambient e a cui facevano da contrappunto gelide tastiere e quel latrato di cane riconducibile fra mille altri (poi grido dimesso nei lavori della maturità). Nonostante tutto, un grande. E nel suo ambito, il migliore...