"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

14 feb 2017

VENT'ANNI DI DEVIN: LA (NON) RECENSIONE DI "THE RETINAL CIRCUS"



“Venite, siori e siore, accorrete! E’ arrivato il circo in città! Nani, ballerine e acrobati si esibiranno per voi! Presenta lo spettacolo…DEVIN TOWNSEND!”

Poteva essere questo lo slogan impresso sulla locandina del grande show allestito dal folle genio canadese per questa unica data europea volta a celebrare un ventennio (circa) della sua attività artistica. 
Sabato 27 ottobre 2012 infatti, alla Roundhouse Venue di Londra, andava in scena questo…questo…come chiamarlo? concerto? No, troppo poco; musical? potrebbe andare se non fosse che anche questo termine è riduttivo…chiamiamolo allora come lo ha chiamato Devin: CIRCO!

Non staremo a fare recensioni su questi 130’ minuti di musica (160, nella versione in DVD che comprende i vari intermezzi, dialoghi e scenette assortite). Se ne parla già diffusamente in rete, con unanime consenso da parte di tutti i siti specializzati. I voti sono tutti molto alti, dall’”8” in su.

Noi preferiamo invece chiederci se “The Retinal Circus” (opera mastodontica che ha necessitato di un anno intero di prove) rende onore e merito alla carriera di un artista sicuramente tra i più geniali che il nostro genere abbia prodotto negli ultimi decenni. 

Ora, affrontare il tema sempre scivoloso dell'autocelebrazione (perchè di questo si tratta, come dimostrano persino le maschere col suo volto rilasciate tra il pubblico) poteva essere fatto in due modi da Devin: o seriamente con un concerto “canonico”, che ripercorresse la ventina di album in studio che hanno attraversato la sua vita musicale; oppure con ironia, senza prendersi troppo sul serio, con spirito dissacrante e volutamente eccessivo. Devin, manco a dirlo, coerentemente con la sua personalità (molto sfaccettata), sceglie questa seconda via seppur, a parere di chi scrive, non percorrendola fino in fondo e ricercando un incrocio improbabile con l’approccio più “serio e profondo”. 
Risultato? Un potpourri di suoni, video, immagini, temi, colori ed espressività multiformi. Una gioia per occhi&orecchie. Con dei “ma” piuttosto evidenti che inficiano il prodotto finale.

Dopo un’introduzione di ben 5 minuti ad opera dell’amico di vecchia data Steve Vai (che appare sul megaschermo alle spalle del palco fungendo da narratore) comincia un coacervo delirante fatto di ragazze con chiappe e seni in bella mostra, nani travestiti con costumi mostruosi, scheletri-ballerini, danzatori e danzatrici camuffati da gatti, cani, scimmie e altre bestie assortite; cori composti da cantanti gospel (con tanto di tunica clericale) sulla cui testa volteggiano acrobati che si arrampicano a 4 metri d’altezza. Finito qua? Manco per l’anticamera! Abbiamo poi contorsionisti e danzatrici del ventre; mega-pupazzi alieni (Ziltoid The Omniscient) che scoprono, telefonando alla moglie rimasta sulla navicella spaziale, di aspettare un figlio (sic!); mega-vagine di gomma da cui improbabili ginecologi, coadiuvati da sexy ostetriche con camici molto succinti, fanno fuoriuscire enormi feti alieni. E molto, molto altro.

Su tutto questo, a dare un senso unitario ai ben 25 brani in scaletta, c’è la storia di Harold (ed è questo l’aspetto “serio e profondo” di cui parlavo prima), ragazzo semplice, con una vita normale (amici, famiglia, studio, ecc.) che, prima di addormentarsi nel suo lettino, si pone mille domande sulla vita e sull’amore, ma soprattutto su quello che è il tema centrale del pensiero townsendiano: le relazioni umane e la loro complessità. Insomma, le canoniche domande sulla natura umana. Inutile dire che al termine di questo folle viaggio, il solito Vai (che interverrà in quasi ogni intermezzo tra un brano e l’altro) ci darà una risposta (che non spoilerizzo).

Ora: per carità, tutto bello e tutto divertente. Ma qualcosa non mi convince. 

Innanzitutto la scaletta: capisco che la band si è spremuta, ha suonato per quasi tre ore, ha eseguito brani da ben dieci album differenti, e fare un sunto completo della discografia del Nostro non sarebbe stato fattibile. Ma, mio caro Devin, come cazzo si fa a lasciare interamente fuori “Terria”!!?? Cioè, non vorrei dire…”Terria”! Il tuo CAPOLAVORO! La summa della tua arte; il disco perfetto, il più bello della tua carriera, Devin! Quella in cui trova equilibrio tutta la tua personalità, tutte le tue (s)manie da malato bipolare, tutti i versanti del tuo Io!Una pugnalata non trovare neppure un brano nella scaletta…

Cerco di passarci sopra e pensare che probabilmente anche lui sa cosa sia e quanto valga “Terria” e che non l’abbia quindi voluto buttare in mezzo a questa sorta di Circo Barnum.

Altra critica: il capitolo Strapping Young Lad. Caspita Devin, ho capito che li hai messi nel cassetto già da parecchi anni, ma tra il pubblico ho visto più gente con la maglia dei SYL che con quella di Ziltoid…e non è un caso che il delirio tra la folla sia esploso in particolar modo quando sul palco è salito al tuo fianco Jed Simon a suonare “Detox” da “City” e “Love?” da “Alien” (e lo credo bene…). Insomma, seppur i momenti da ricordare, musicalmente parlando, non manchino (l’incipit esaltante di “Effervescent!/True north”, le emozioni di “Vampira” e “The greys” e i melodiosi spazi soft di “Ih-Ah!”, "Wild colonial boy" e “Grace”) credo che una maggior presenza del giovane ragazzotto ben piantato sarebbe stata gradita a tutti.

E infine passiamo a Lei, la Dea. Anna Maria, in arte Anneke. Ormai compagna fedele dei progetti del Nostro dal 2009 (anno di uscita di “Addicted”), l’olandese più amata dai metallari di ogni latitudine, ogni cosa che “tocca” la trasforma in oro. Ogni suo intervento alza la qualità del tutto, i suoi inconfondibili vocalizzi rapiscono in quel 2012 come fece la sua entrata in scena già dal primo verso di “Strange Machines” nel 1995. 
Ma (a proposito dei “ma”): lei sempre misurata, sempre compita nei suoi vestiti sobri, sempre smaliziatamente sorridente nella sua femminilità fine ed affascinante; in mezzo a quel bordello…boh, non ce l’ho vista tanto! Lungi dall’apparire il bacchettone che proprio non sono, è come immaginare una Audrey Hepburn che si aggira sul set di un film porno durante la ripresa di un’orgia. Con la sua classe e presenza scenica, Anneke riesce sempre a dare l’impressione che sia a suo agio, anche quando Devin limona con il pupazzo di Ziltoid (scena alquanto stomachevole), o che gli enormi peni di gomma e le vagine occhiolute (sic!) intorno a lei non ci siano…però, noi le vediamo e la cosa stride un goccino…

Insomma, per il sottoscritto, imperituro fan di Devin, è stata una gioia vedere il DVD e celebrare, seppur in remoto, i suoi 20 anni di musica; mi rimane però un retrogusto, se non amarognolo, quantomeno di incompiutezza: la sensazione che si potesse fare, non dico di più, ma di meglio.

Del resto Devin non è un musicista normale e non potevamo aspettarci uno show “normale”! Prendere o lasciare…io ovviamente, prendo!

A cura di Morningrise