"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

22 mar 2016

DIECI ALBUM (PIÙ UNO) PER CAPIRE PAUL CHAIN (parte seconda)





Fatte le dovute premesse (vedi anteprima), giunge finalmente il momento di passare in rassegna quelli che secondo noi sono i dieci album che dovrebbero essere ascoltarti per comprendere il complesso mondo artistico di Paul Chain. Partiamo dai primi cinque:

10) “Opera 4th” (1987)
Con “Opera 4th” si conclude la breve esistenza dei Violet Theatre, il progetto che avviò Chain dopo la sua fuoriuscita dai Death SS. Il progetto risentiva ancora dell’esperienza precedente, delineandosi nelle forme di un heavy-rock dalle forti tinte dark. Con questo quarto lavoro Chain palesa tuttavia una forte volontà di scollegarsi dall’universo metal, tanto che per certi aspetti questo capitolo della sua discografia può esso visto come lo spartiacque fra il vecchio e il nuovo.

Il risultato è però sbilanciato: “Opera 4th” può essere infatti descritto come un abnorme nano dalla testa enorme (che non è una bella immagine...). Il brano di apertura “Our Solitude” (Birth, Life, Death)” è una traccia dark-ambient dalla durata di mezzora, in cui l’autore si affida interamente alle tastiere e al suo talento visionario: quel che ne viene fuori è il capolavoro esoterico di Chain, autore assolutizzante e dall'infinito ardire (altro che le pagliacciate di tanti altri gruppi che si dichiarano vicini al mondo dell'Occulto). Più debole, a nostro parere, la seconda parte dell’album, composta da tre brani più canonici (fra cui spicca l'anthemica, “Evil Metal: Obscurity of Error”), in cui il Nostro pare riconciliarsi con il mondo dell'heavy metal.

9) “Life and Death” (1989)
Non considerando il doppio “Violet Art of Improvisation” (che usciva nel medesimo anno, ma che raccoglieva materiale registrato negli anni precedenti), “Life and Death” può essere considerato il primo album solista di Chain in senso compiuto. Come già successo in precedenza, al microfono si avvicendano Chain stesso e Sanctis Ghoram (ex vocalist dei Death SS nella breve vacatio temporis in cui Sylvester abbandonò la band). Dettaglio curioso: nel lato B ritroviamo al gran completo la formazione dei Death SS nel periodo '82-'84!

Lo diciamo subito: “Life and Death” non è un brutto album, ma è un lavoro dalla qualità altalenante, oscillando esso fra pezzi eccelsi ed episodi trascurabili che palesano una certa difficoltà di Chain nel confrontarsi con un hard-rock più melodico (ma perché??). Potete tuttavia stare tranquilli perchè Chain non fa mai cagate e il trittico “Antichrist”, “Kill Me” e “Ancient Caravan” è lì a dimostrarlo: le prime due, fra riffing geniale, assoli da manuale e ariosi tappeti di organo sono arte cateniana allo stato puro, mentre la terza è un gioiello di folclore medievale che svela una dimensione inedita per il Catena. Fra alti e bassi, “Life and Death” rappresenta l'ideale anello di congiunzione fra i due capolavori di Chain: quell'”In The Darkness” rozzo ed oscuro monolite licenziato pochi anni prima con i Violet Fire e l'elegante e raffinato ”Alkahest” apice della sua carriera solista.

8) “Mirror” (1997)
Mirror” è una raccolta di rarità disperse in compilation, split, collaborazioni, uscite brevi, di cui la vasta discografia di Chain è disseminata, più un inedito: una cover dei Black Sabbath (“Elecric Funeral”). “Mirror” è tuttavia un gran bel lavoro, non foss'altro per il fatto che dura settantuno minuti. Ed è sempre bello poter disporre di settanta minuti e passa di Paul Chain: niente concept, solo tredici pezzi in cui apprezzare l’ispirazione senza fondo del geniale chitarrista. Salvo un paio di pezzi anomali (la veloce, quasi thrash “Sangue”, peraltro cantata in italiano da Sandra Silver, e la sorniona, psichedelica “Luxury”, ad un passo dai Pink Floyd fumosi di inizio anni settanta), i brani si muovono entro i binari di un heavy-rock sorretto da solidi ed ossessivi riff come prescritto dalla miglior tradizione cateniana.

Non incontreremo i brani più memorabili dell'artista pesarese, ma è sempre un piacere ascoltare Paul Chain, perché nella sua musica capita spesso di imbattersi in qualcosa di prodigioso: un assolo strabiliante, un'imprevista virata d’organo, un qualcosa che schizza fuori all'improvviso e scompagina le carte in tavola. La produzione artigianale non fa che accrescerne il fascino dell'opera. 

7) “Master of All Times” (2001)
Esiste poi il filone “Paul Chain – The Improvisor”, “contenitore” in cui il Nostro dà pieno sfogo alle sue pulsioni sperimentali. Fanno parte della famiglia album come “Sign from Space” (2001) e “Cosmic Wind” (2003), escursioni ardite nel campo dello space-rock più allucinogeno (ben ammaestrato dalla mano pesante dell'autore). Scegliamo tuttavia il gioiellino che risponde al nome di “Master of All Times”, dove il Catena trascura la sua chitarra per consacrarsi totalmente alle tastiere, che peraltro suonava egregiamente fin dai tempi dei Death SS.

Registrato in presa diretta nella notte di Halloween dell'anno 1999 (poi pubblicato due anni più tardi), “Master of All Times” potrebbe rispondere alla definizione di ethereal prog, andando a pescare tanto dalla musica cosmica quanto dal prog-rock degli anni settanta. L’opera è divisa in cinque tracce, ma potrebbe essere vista come un’unica suite di quaranta minuti, dove Chain fa delle tastiere un uso a dir poco hendrixiano, avvicinandosi all’estro di Mike Ratledge dei Soft Machine. Flauto, violino, una batteria persistente, i soliti fonemi inventati fanno da contorno alle prodezze di Chain che allestisce il suo consueto “viaggio emarginante”, volgendo all’eternità in una magica dissolvenza...  

6) “Whited Sepulchres” (1991)
Già contemplato nella nostra classifica dei migliori brani lunghi del metal, “Whited Sepulchres” è l’antesignano degli album “strumentali” di Chain (che fa della sua voce un uso più vicino a quello di uno strumento). In linguaggio scelto è quello dello stoner-rock più acido e stordente: una batteria che picchia ossessiva come un metronomo, il chitarrismo torrenziale di Chain ad ergersi a supremo protagonista.

Space-rock, psichedelia, doom: sono questi gli ingredienti della title-track, lunga ben venti minuti: un tour de force chitarristico senza compromessi che palesa le eccelse capacità tecniche (ma anche la resistenza!) di Paul Chain, sacerdote supremo dello psycho-doom. E i Sepolcri Imbiancati non sono altro che l’ennesimo pugno in faccia all’ipocrisia imperante: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume” (dal Vangelo secondo Matteo).