"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

5 feb 2016

MANILLA ROAD, UN...DILUVIO DI EPICITA'!


I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’80)

1986: “THE DELUGE”

Se c’è un sottogenere dell’heavy metal che, in relazione alla sua definizione, ha creato divisioni, contrapposizioni e interpretazioni diametralmente opposte in seno a critica e pubblico, questo è senza dubbio il c.d. epic metal.

Quando una band, e la sua proposta musicale, può essere definita “epic”? Come deve suonare una “musica epica”? Che caratteristiche deve avere? Ma è poi davvero la musica il fulcro, o è l‘attitudine e/o l‘atmosfera generata; o, ancora, i testi delle canzoni che determinano il grado d’epicità di un gruppo?

Credo che ogni buon metallaro che ami determinate sonorità heavy/classic potrebbe dare una risposta diversa. Facendovi confluire band anche molto lontane tra di loro nel sound.

A cura di Morningrise

Dal canto mio, per identificare in maniera immediata la mia concezione di Epic Metal, potrei rispondere con un solo nome: Manilla Road.

Prendete due binari che partono dalla medesima stazione; su ognuno di essi è posto un treno, trainato da una locomotiva. La prima di queste ha inciso su di essa il monicker “Manowar”. La seconda è marchiata “Manilla Road”.

Nel 1983 i due convogli partono assieme verso un medesimo orizzonte: quello del metal epico. La prima carrozza da cui è composto il treno dei Manowar si chiama “Into Glory Ride” e quello dei Manilla Road “Crystal Logic”. Due grandissimi dischi (due carrozze di “prima classe”!) entrambi ben accolti da critica e pubblico.
Ma mentre il primo fu il passpartout per DeMaio e soci per sfondare a livello mondiale, soprattutto in Europa (dove invece il primo full-lenght della band, l’ottimo “Battle Hymns”, non era penetrato), per il secondo il destino fu diverso. 

I due binari paralleli infatti presto divennero divergenti: mentre quello dei newyorkesi proseguiva verso luci della ribalta, masse di fan idolatranti, concerti in stadi stracolmi e un proseguimento di carriera che, soprattutto dal poco più che discreto “The Triumph of Steele”, vivrà di rendita (non entro nel merito se meritata o meno); il convoglio dei Manilla Road guidato dal chitarrista-cantante Mark Shelton proseguì arricchendosi da un lato di carrozze di lusso, grazie a pubblicazioni di valore assoluto; ma dall’altro i binari del loro tragitto li portarono verso le terre underground, fermandosi in stazioni poco frequentate, anche se i passeggeri via via imbarcati ne apprezzavano il "servizio" e avrebbero continuato, come pubblico di nicchia, a utilizzare questo treno in modo continuativo e fedele.

Frasi e gesti ad effetto, tam tam mediatico, ottima distribuzione e promozione da parte delle etichette…gli strabilianti risultati dei Manowar si possono spiegare da tanti punti di vista. E, forse, quello musicale non è il primo di questi…non voglio parlare di cagate assolute come la sterile diatriba sul “true metal”; oppure di Thor, Odino, Valhalla e altre amenità di questo tipo. E neppure di Wagner (che a sentirsi continuamente citato da DeMaio probabilmente gli sarà venuto il mal di testa a forza di piroettare nella tomba…). Ma, limitandomi alla musica, per me i Manowar sono davvero “epic” solo in “Into Glory Ride”; da “Hail to England” in poi, a parere del sottoscritto, cominceranno progressivamente a perdere quella sincera, primigenia, naturale propensione all’epico (riscontrabile dal 1984 in poi solo in alcuni momenti e/o in alcune determinate canzoni, ma non più nel mood complessivo delle intere opere), per poi perdersi quasi del tutto con “Fighting the World”. Joey&Ross “The Boss” cercheranno di recuperarlo, riuscendovi parzialmente, con il pluridecorato “Kings of Metal” (ottimo album ma, per chi scrive, alquanto artificioso: sa troppo di costruito-a-tavolino), dando fondo alle tematiche suddette e alle terminologie auto-incensanti già stra-abusate nei cinque dischi precedenti.
Da quel 1988 il senso e il contributo al Metal dei Manowar si concluderà con un triste riciclo di se stessi.

E Shelton nel frattempo che combinava? Sfornava dischi. Dischi della madonna, dischi cazzutissimi. Dischi, questi sì, di un’epicità assoluta. Dopo “Crystal Logic” fu la volta dell’ottimo “Open The Gates” (1985); e, nel 1987 di “Mystification”, altro disco di caratura superiore alla media.
Ma facciamo un passo indietro: un anno prima, nel 1986, la band aveva dato il massimo, rilasciando il suo capolavoro definitivo: “The Deluge”. Questo è il prototipo, a mio modesto avviso, di cosa sia l’epic metal. Una pietra miliare/di paragone per tutti coloro che, da quell’anno in poi, avrebbero voluto definirsi tali. 
Forse solo quel grandissimo album che fu “King of the Dead” dei Cirith Ungol, pubblicato nel 1984, può appaiarsi a “The Deluge” a guidare la fila dei dischi epic.

La cosa che più mi ha sorpreso ascoltando i M.R. è quella di essere riusciti a creare un’ambientazione sonora e a veicolare sensazioni da “giorno del Giudizio Universale” non avvalendosi nient’altro che dei classici strumenti del Metal: basso, chitarra e batteria. Un power trio semplice e canonico.
Nella loro musica non troverete orchestrazioni pompose, tastiere assordanti, violini e violoncelli, tecnicismi esasperati o profluvi strumentali portati alle lunghe. Shelton mantenne, nell’arco di questo quadrilatero di dischi, un songwriting semplice. O apparentemente tale.

Si, apparentemente: perché sfido un-DeMaio-qualsiasi a coniugare, in un amalgama perfettamente bilanciato, partiture classicamente heavy, oscurità acustiche, rallentamenti doomici e bordate improvvise, veloci e dinamiche. Il tutto avvolto da una propensione e un atteggiamento progressivo, che si evidenziava in particolar modo nella libera elaborazione strumentale, che consentiva a Shelton di fuoriuscire spesso dal canonico schema-canzone. 
E’ quello che si può denotare in brani immensi del disco in oggetto, come ad esempio “Shadow in the Black”, che inizia con un suadente arpeggio fino al deflagrare in un assolo in puro stile New Wave che sfocia in un enorme riffone cavalcante, al quale si susseguono ancora rallentamenti, velocizzazioni, acuti…insomma, una struttura progressiva a tutti gli effetti.
Non mancano come detto le staffilate più tipicamente power, come l’opener “Dementia”, che apre le danze in maniera schizoide, malsana, con la batteria terremotante di Randy Foxe, supportata dal basso pulsante di Scott Park, su cui si innestano i funambolismi di Shelton e la sua voce inconfondibile, nasale. Un pezzo emblematico in cui è la vena oscura dei Nostri che prevale prepotentemente e che ritroveremo anche in seguito in pezzi come “Isle of the Dead” e “Taken by Storm”; o ancora nelle essenziali “Divine Victim” e “Hammer of the Witches”, quest’ultimo un pezzo sabbathiano fino al midollo.
I riferimenti al rock settantiano, dal cui alveo Shelton proveniva come formazione, si evidenziano poi nella strumentale “Morbid Tabernacle”, guidata da uno spettrale suono d’organo, utile momento di riflessione per introdurci alla seconda parte del platter; parte in cui si ergono in maniera maestosa gli 8 minuti e 13 secondi della title track, perfetta sintesi di tutto quanto abbiamo descritto finora. E , ribadiamo, in cui si capisce in maniera plastica cosa voglia dire suonare epic metal…

Shelton quindi riuscì, in quei magici, irripetibili cinque anni (1983-87), a creare un sound poliedrico e personalissimo, inimitabile, sempre in bilico tra le diverse anime su descritte: perfetto mix di potenza, oscurità e melodia epicheggiante.

Ma, nonostante il consenso ricevuto dai Nostri fu sempre unanime, l’attenzione verso la band progressivamente scemò, incomprensibilmente. Tanto da creare attriti in seno al gruppo, soprattutto tra Park e Foxe. Shelton decise a quel punto di sciogliere la band…

Come abbiamo visto già per i Diamond Head, la reunion avvenne agli inizi degli anni Duemila, quando altri gruppi epic li cominciarono a citare come loro principali influenze. 
Ma, inutile dirlo, la magia delle opere degli anni ottanta non si ricreò mai più, nonostante le ristampe dei vecchi dischi ottennero un buon successo.

“The Deluge” rimane quindi il lascito più importante dei Manilla Road alla storia della nostra musica preferita, un disco essenziale per ricostruirne la storia. 
Tra 20 giorni esatti, il prossimo 25 febbraio, cadrà il trentennale della sua uscita nei negozi…quale occasione migliore per andare a riascoltarlo e farsene rapire? 
Vi suonerà fresco come allora, come se 30 anni non fossero mai passati…