"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

12 dic 2015

IRON MAIDEN: “RIME OF THE ANCIENT MARINER”




I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO

1° CLASSIFICATO: “RIME OF THE ANCIENT MARINER” (IRON MAIDEN)

Al secondo posto della nostra classifica avevamo trovato “Keeper of the Seven Keys” degli Helloween: un brano che abbiamo definito perfetto. Perché perfetto? Perché nei suoi 13 minuti e 38 secondi, la “Keeper...” delle Zucche si è mostrata impeccabile. Come chi si prepara ad una lunga traversata, gli Helloween hanno delineato una strategia, raccolto provviste, si sono imposti una ragionevole tabella di marcia, dosando le energie e calibrando l'utilizzo delle risorse a loro disposizione per affrontare i momenti di maggiore difficoltà. Tradotto in musica: sono partiti calmi con un'introduzione acustica, hanno sapientemente diluito qua e là i tempi, da un lato mantenendo cautamente il formato canzone, dall’altro aggiungendo scintille di complessità. Convergendo infine tutta la loro ispirazione in un ritornello che farà epoca e costruendo con dedizione una sezione centrale da urlo: il tutto spalmato su uno schema dove ogni cosa è perfettamente al suo posto.

Ma a noi di Metal Mirror la perfezione non basta: vogliamo andare oltre, come hanno fatto gli Iron Maiden di “Rime of the Ancient Mariner”.

13 minuti e 36 secondi è la sua durata e se non fosse stato per la recentissima “Empire of the Clouds” (18:01), essa sarebbe ancora oggi la traccia più lunga mai realizzata dalla band. Del resto gli Iron Maiden non erano nuovi ad esperimenti volti ad estendere un brano oltre il classico formato canzone. Già nel debutto vi era stata quella “Phantom of the Opera” (7:20) che presentava al suo interno partiture assai articolate, nonostante le vocalità grezze di Di'Anno. Per far sì che i Nostri potessero assecondare appieno le loro tentazioni progressive, dovemmo dunque aspettare un cantante versatile, espressivo e dall'ampiezza vocale impressionate come Bruce Dickinson. Ecco che subito in “The Number of the Beast” trovammo la bellissima “Hallowed Be Thy Name” (7:08), per metà funerea ballad, per metà epica cavalcata. In “Piece of Mind”, invece, la parte della leonessa la faceva la sensazionale “Revelations” (6:48) che, nonostante una durata contenuta, si presentava come un imprevedibile intreccio di struggenti sezioni acustiche, robusto hard-rock e repentine virate verso un heavy metal epico e coinvolgente.

Ora, che gli Iron non siano la band più avventurosa ed avventata di questo mondo, lo sanno tutti. Ma al quinto album e all'apice del successo, anche loro seppero trovare il coraggio per concepire e realizzare una traccia veramente lunga: era il 1984 e veniva dato alle stampe “Powerslave”, un'opera che, anche solo per la copertina, sarebbe divenuta una pietre miliare nell’immaginario del popolo metallico. L'ultimo brano in scaletta era proprio quella “Rime of the Ancient Mariner” di cui ci apprestiamo a parlare.

Se gli Helloween si erano approcciati al loro brano più lungo con ponderazione e senso della misura, gli Iron non abbisognavano affatto di un intro: “Rime of the Ancient Mariner” parte senza indugi, ex abructo potremmo dire, con chitarre arrembanti dal primo istante e un Bruce che inizia a cantare solo dopo venti secondi. Nella metafora della traversata, i cinque inglesi, rispetto ai tedeschi, si buttano a correre a rotta di collo appena udito lo sparo del via. Ma attenzione, non è l'incoscienza degli sprovveduti: gli Iron sanno di valere e quindi si possono permettere di osare.

Si diceva che gli Helloween hanno fregiato la loro “Keeper” di uno dei loro ritornelli più riusciti, un ritornello denso di pathos e di fraterno calore. “Rime of the Ancient Mariner” non ce l'ha neppure un vero ritornello. Nella sua prima parte, infatti, essa si sviluppa in un susseguirsi di strofe che si reiterano con la stessa cadenza: uno schema che può essere più o meno tradotto nel modello A,B,A,B,A,C,A,C, dove B e C si assomigliano molto. Ma questa somiglianza non può decretare lo status di vero ritornello, o almeno di un ritornello come gli Iron, campioni indiscussi nell'arte di edificare anthem da stadio, ci avevano abituati fino ad allora. Mi riferisco a versi come “Sailing on and on and north across the sea / Sailing on and on and north 'til all is calm” e “And the curse goes on and on at sea / And the curse goes on and on for them and me” (poi ripresi nel finale nella variante di And the ship it sinks like lead into the sea / And the hermit shrieves the mariner of the sins” e And the wedding guest’s a sad and wiser man / And the tale goes on and on and on”): sembrerebbe piuttosto che per la loro “ballata”, essi abbiano deciso di svincolarsi dal canonico formato canzone per meglio ricalcare l’impianto narrativo del noto poemetto di Samuel Taylor Coleridge, a cui il brano si ispira.

Eccoci dunque al testo. Se gli Iron sono stati dei grandi, è perché essi sono riusciti ad elevarsi rispetto al resto dei loro colleghi della N.W.O.B.H.M. (i quali, invece, continuavano irrimediabilmente ad essere ancorati ai temi ed agli schemi semplici tipici dell'hard-rock e del punk). Gli Iron non solo avevano ampie vedute musicali, ma anche una cultura sopra la media, o per lo meno eccelse capacità comunicative: nei testi (ma anche nelle atmosfere delle canzoni) c'era spesso spazio per la storia, per la mitologia, per la letteratura e ovviamente per un grande senso di appartenenza alla loro patria, l’Inghilterra (e proprio la loro ostentata “inglesaggine” rimarrà uno dei loro marchi di riconoscimento più caratteristici!). Tutti questi aspetti trovano nobile sfogo nell'adattamento musicale de “La Ballata del Vecchio Marinaio”, testo classico della letteratura romantica inglese, pubblicato per la prima volta nel 1798.

Le vicende narrate sono universalmente note: si tratta di una storia di mare, di una spedizione diretta al Polo Sud. La voce narrante è quella del Vecchio Marinaio del titolo, condannato ad errare in Eterno per raccontare la sua edificante storia e per predicare il rispetto per le creature di Dio. Egli fu infatti colui che durante quella spedizione uccise il mitico albatros, attirando così prima l'ira divina, poi quella dei suoi compagni di viaggio. L’uccisione ingiustificata dell’uccello, infatti, si rivelò di cattivo auspicio per la spedizione, considerato che da quel momento sarebbero iniziate a piovere forti sciagure sulla nave e sul suo equipaggio, entrambi in balia delle forze soverchianti della Natura.     

Se devo dire la mia, il vago ricordo che ho dello scritto di Coleridge (reminiscenza che risale ai tempi del liceo) mi restituisce una dimensione di oscuro presagio, di desolazione e sofferenza statiche, laddove il teatro degli accadimenti è una nave spersa nei mari fermi e per niente ventilati dell’equatore: i marinai spireranno uno ad uno, eccetto il protagonista, silente e tormentato testimone della tragedia (i compagni lo avevano punito legandogli al collo il corpo esanime dell’albatros da lui abbattuto). Gli Iron, invece, ci consegnano una versione tonificata del poema, probabilmente sottoposto ad un processo di epicizzazione metallica. Il metal, in genere, si interessa quasi esclusivamente degli aspetti narrativi, tralasciando spesso i risvolti morali ed etici, ma con che vigore ed energia i cinque inglesi ci raccontano le peripezie del Vecchio Marinaio!

Il brano porta la firma di Harris ed incarna tutte le caratteristiche della scrittura del bassista: l’andamento cavalcante si va a venare così di quel canglore metallico che è tipico delle terzine di Harris suonate con forza dalle sue turbinanti dita. Gli altri gli stanno dietro alla grande, erigendo un sound solido ed imponente, solcato dalla voce squillante di Dickinson.

Il brano brilla di un irrequieto dinamismo conferito da riff rocciosi e dal drumming affatto lineare di McBrain, che come al suo solito snobba la doppia-cassa ed arricchisce il suo passo con massicci contrappunti di piatti, rullate, azzeccati controtempi che sanno di dramma di mare, di spruzzi di acqua gelida e salata nei denti. Dopo diversi minuti di chitarre e basso cavalcanti, assistiamo ad una brusca accelerazione in cui gli Iron tornano ad esprimere il loro lato più epico, con un eroico Dickinson in prima fila. A dare ulteriore carica al brano è la sua imprevedibilità, dato che si muove compatto per blocchi ben saldati fra loro: “Rime of the Ancient Mariner” non è infatti né una suite né una “lunga canzone” (come abbiamo visto in altri casi). Essa sfugge anche al modello della jam psichedelica, considerata la dose di pragmatismo squisitamente anglosassone che caratterizza ogni suo singolo frangente. E' semplicemente  sano e tosto e geniale heavy metal al cubo!

Dopo altri passaggi mozzafiato e di grande tensione, ecco che si passa al celebre interludio centrale, dominato da un lento basso arpeggiato e dall'oscuro recitato di Dickinson, che cita direttamente i versi dal poema di Coleridge. Ecco che emerge quella sensazione di desolazione di cui accennavo prima: in queste lente note di basso e nei giochi di volume della chitarra, sta tutta la spossatezza di un equipaggio allo strenuo delle proprie forze. Ma ecco che ad un certo punto il basso s'impenna e si getta in uno dei giri più noti del metal (io ci sento i Tool e persino il giro portante della mitica “Mogwai Fear Satan” dei Mogwai!) e il brano di colpo torna a movimentarsi, con un Dickinson ancora grandioso chiamato a cavalcare le onde. Completano il quadro le chitarre esplosive che finalmente hanno modo di decollare, scontrandosi in ritmiche entusiasmanti ed imperdibili assolo, in cui Murray e Smith dialogano, parlano all'unisono e si scambiano la parte continuamente.

Il brano si chiuderà in maniera circolare, riassumendo le sembianze iniziali, e con queste leggendarie note chiudiamo anche la prima parte della nostra rassegna. “Rime of the Ancient Mariner” è dunque, secondo il nostro umile parere, la vincitrice della nostra competizione. Sappiamo benissimo che i gusti son gusti e che di sicuro gli Iron Maiden non piaceranno a tutti, ma sarebbe un delitto non riconoscere la grandezza di questo brano, che rimane un importante pezzo di storia del nostro genere preferito. Ci sarà comunque consolazione per i delusi, ai quali dico: niente paura, questa era solo la classifica relativa al metal classico, presto ci addentreremo nell’oscuro regno dei metal estremo, dove avremo modo di imbatterci in piacevolissime sorprese.

Ma prima, un breve intermezzo in cui andremo ad analizzare tre brani che, per un motivo o per un altro, non abbiamo potuto includere né in questa né nella prossima classifica…

To be continued...