"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 dic 2015

DIAMOND HEAD, QUANDO EVOLVERSI VUOL DIRE MORIRE



I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’80)

1983: “CANTERBURY”

In qualsiasi ambiente di lavoro una delle soddisfazioni umanamente più gratificanti è la stima e l’apprezzamento per il proprio operato da parte dei colleghi.
Credo che questo assunto si possa traslare anche nei contesti di carattere artistico. 
E ovviamente anche in quello musicale, a maggior ragione in quanto caratterizzato (almeno da quello che si può denotare come osservatori esterni) più da invidie e rancori che da stima e collaborazione tra i diversi personaggi che ne fanno parte.

In relazione a ciò, possiamo evidenziare che nel mondo del metallo è accaduto che delle band, sottovalutate dal mercato e conseguentemente dalle case discografiche, abbiano trovato una riabilitazione grazie ad altri gruppi, i cui componenti sono stati, magari prima di diventare musicisti, loro fans sfegatati, riconoscendone, anche a distanza di parecchi anni, influenze sulla musica da essi stessi composta. E in questi casi, si è finito quasi sempre per rendergli omaggio. 
E quale miglior modo per farlo se non attraverso delle cover?

A cura di Morningrise

Il caso dei Diamond Head di Brian Tatler e Sean Harris è forse il più emblematico. Non tutti i fruitori metallici li conoscevano a fondo prima che Hetfield&co., nel loro Garage Inc. (1998), ne rileggessero “Helpless” e la straordinaria “Am I Evil?” (due brani contenuti nel loro album d’esordio “Lightning To The Nations”). Quando uscì quest’album di cover dei Four Horsemen i DH si erano già sciolti, riformati per soli 3 anni, e ri-sciolti da altri 4…insomma, un calvario! L’adorazione dei Metallica per la band britannica venne rafforzata inoltre da alcune dichiarazioni di Lars Ulrich, che arrivò a dire che la monumentale “Seek&Destroy” fu influenzata dal riffing di “Dead Reckoning”, altro pezzo della Testa di Diamante. La forza e la popolarità dei Metallica portò a una rivalutazione, e un conseguente apprezzamento, verso la band britannica tale da convincere i due fondatori Tatler/Harris a riproporsi sul mercato…ma questa è storia (peraltro alquanto triste) recente…a noi interessa fare un salto indietro.

Si, perché con i Diamond Head intendo chiudere questo primo filone della nostra Rassegna trattando l’ultimo disco appartenente alla N.W.O.B.H.M.: “Canterbury”, terzo full-lenght dei Nostri e, lo dico subito, il più controverso. Talmente controverso da decretarne la morte artistica. E mai “tesoro musicale” fu più incredibilmente dilapidato. La colpa principale fu senz’altro dell’etichetta americana MCA, che aveva preso sottobraccio il four-piece in occasione del capolavoro “Borrowed Time” (1982).
E allora quale fu la grave colpa della band tale da meritarsi la rescissione del contratto e il risentimento del popolo metal che fino all’anno prima li aveva osannati??
Fu, credo, quello di evolversi. Di cambiare. Di voler dimostrare, a se stessi prima di tutto, che erano capaci di scrivere non soltanto enormi pezzi heavy, ma di fondere con qualità e gusto questi stilemi con altre influenze. Hard rock prima di tutto.
Risultato? “Canterbury”, appunto: un album bellissimo, sinuoso, accattivante e coinvolgente. E per certi versi spiazzante. In realtà il sottoscritto è proprio uno di quei fan del combo albionico che gli preferisce BT. Non soltanto perché è più “metal”, ma perché ho adorato quel songwriting complesso, corposo, epico che caratterizzava brani immensi come la title-track, “To heaven from hell”, “Don’t you ever leave me” e la già citata “Am I evil?”.
E, onestamente, ascoltando l’opener di “Canterbury”, la ruffiana ed easy-listening “Makin’ music”, mi sono anch’io detto: ma questi non sono i DH!! Nel senso che il brano è fortemente (ma mooolto fortemente) hard-rock oriented, con un chorus (Makin’ music…makin’ music…rock and roll!!) di una banalità, credo voluta, ma nondimeno disarmante. Certo, c’è la voce sempre ispirata di Harris e un bell’assolo di Tatler verso la fine, ma insomma…si rimane alquanto perplessi. 
Una perplessità che prosegue anche con la successiva “Out of Phase”, costruita sullo stile della precedente. Per carità, canzoni più che discrete (tipologia che troverà il suo culmine nella quarta traccia, quella “One More Night” che aveva tutte le potenzialità per diventare un singolo da hit parade) ma davvero molto spiazzanti per chi, come il sottoscritto, aveva amato la durezza epica del lavoro precedente.

Ma poi, proseguendo nell’ascolto senza parao(re)cchi(e), ho scoperto piano piano una qualità di scrittura notevolissima. E che trova il suo primo fulgido esempio nell’oscura “The Kingmaker”, un brano epico, inquietante, straniante. Che sembra catapultarci direttamente alle sanguinose battaglie che caratterizzarono il Medio Evo britannico (sensazioni fortemente richiamate anche dalla splendida copertina del disco). Un brano, quindi, in cui tutta la visionarietà dei Nostri (profusa a piene mani in “Borrowed Time”) torna ad emergere prepotente. Soluzioni che, per fortuna, troveranno ancora tanto spazio nel prosieguo del platter ("To the Devil His Due”, “Knight of the Swords”), trovando il suo climax nella conclusiva title track, brano da 10-e-lode, da tramandare ai posteri.

E quindi: hard rock, cavalcate heavy, influenze orientaleggianti (nella splendida “Ishmael”), brani epici e maestosi. Il tutto espresso con classe compositiva e leggiadria esecutiva in appena 40’ di musica. 
Sarebbe dovuto bastare per mettere d’accordo critica e fans, giusto?
No, sbagliato. Evidentemente tutto questo non bastò.

La prima conseguenza dello scarso esito commerciale fu il forzato cambio da parte della MCA di Colin Kimberley e Duncan Scott, rispettivamente bassista e batterista originari del gruppo. Fattore che fu semplicemente l’anticamera naturale dello scioglimento dell’intera band. Follia pura.

Non so cosa avrebbero potuto dare ancora al metal i DH se non avessero avuto queste vicissitudini. Di certo, nel giro di appena tre anni, furono in grado di realizzare un lascito per il metal enorme. E questo è sotto l’occhio e le orecchie di tutti. 
Non servivano i Metallica per sottolinearlo. Non serviva ma evidentemente aiutò.

“Canterbury”, seppur non un capolavoro, è forse il miglior sigillo artistico posto da una band, nata e cresciuta proprio nella N.W.O.B.H.M., alla Scena stessa (ovviamente Iron a parte che proprio quell’anno pubblicavano un certo “Piece of mind”).
E forse (a me piace pensarlo!) la loro sventura artistica è potuta servire anche al pubblico metal a diventare più aperto, più tollerante e ad accettare con cautela, e senza immediati pregiudizi, cambiamenti di stili da parte delle band amate.

Credo che questo sia ormai un concetto acquisito dalla stragrande maggioranza degli ascoltatori. L’evoluzione e il mutamento, se credibili e frutto evidente di maturazione professionale, sono il sale dell’Arte in generale (con tutto il rispetto ovviamente per le opinioni che possono avere i fan sfegatati dei Running Wild…). E la musica Metal non fa eccezione. Forse nel 1983 ancora non eravamo pronti ad accettare di buon grado queste virate stilistiche. Un vero peccato.

Ma ora è tempo di lasciare la Gran Bretagna. Nel 1983 il centro nevralgico del Metal aveva attraversato l’Atlantico e si era spostato negli States (a luglio era uscito “Kill’em all”!!), dove la nostra Rassegna sosterrà per un bel po’ di anni.

Ma prima…prima permettetemi una sorta di interludio. Una pausa utile per lasciare come si deve il tratteggio, tramite le “nostre cult bands”, della New Wave.
Un intermezzo atto a celebrare, appunto, un’altra grandissima cult band di quella magica ondata. Una band che può fungere da esempio massimo di come le (pseudo) grandi etichette possano rovinare un ingranaggio che funziona a meraviglia (lo abbiamo appena visto con i DH, ma questo è un esempio probabilmente ancora più lampante).

Una band che, alla ricerca presumibilmente della definitiva consacrazione (dopo aver riscontrato un successo importante di critica e pubblico, seppur non di massa) decise di attraversare non solo idealmente, ma ahinoi anche fisicamente, l’oceano che separa l’Europa dall’America. 
Per loro però l’american dream si rivelerà presto un incubo disastroso…