"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

27 nov 2015

PRAYING MANTIS, IL MORBIDO VERSANTE DELLA NEW WAVE



I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’80)

1981: “TIME TELLS NO LIES”

Se per il 1980 la scelta di quale dovesse essere l’album delle cult bands maggiormente rappresentativo è stata abbastanza semplice, per il 1981 è stato invece molto, molto difficoltosa.

Rimanendo nell’alveo della N.W.O.B.H.M., che ancora in quell’anno stava esprimendo produzioni qualitativamente eccelse, sono almeno quattro i dischi che si sono contesi nel mio cuore la presenza nella nostra Rassegna. 
Uno di questi appartiene ad una band che analizzeremo nel prossimo capitolo (ed è per questo motivo che l’ho scartato).

A cura di Morningrise

Il secondo è “Shock Tactics” licenziato da un’altra cult band della New Wave, i Samson, capitanati da quell’ottimo chitarrista che fu Paul Samson, deceduto per un tumore nel 2002 a soli 49 anni. 
Sul secondo e terzo full lenght del combo (“Head On” e lo stesso "Shock Tactics") militò dietro al microfono, sotto lo pseudonimo di “Bruce Bruce” (soprannome alquanto ridicolo), proprio lui…un allora ventitreenne Bruce Dickinson! Che, nonostante la giovane età, faceva già intravedere delle doti superiori, che si esprimeranno in modo fulgido già l’anno successivo su “The Number of the Beast”.
I Samson, anch’essi inclusi nella compilation "Metal for Muthas", furono protagonisti di un paio di dischi di notevole fattura. E, a mio modo di vedere, meriterebbero di entrare nella nostra rassegna appunto per ST, compendio ben amalgamato di disparate influenze: si va da staffillate heavy di grande potenza (“Riding with the Angels”, “Earth Mother”, “Bright Lights”) a reminiscenze blues (“Nice Girls”); da omaggi ai grandi padri del rock settantiano (la purpleiana “Blood Lust”) a pezzi più marcatamente hard rock (“Go to Hell”). 
Insomma, un disco di valore, ottimo connubio di potenza&melodia e che aveva nella sua eterogeneità un indubbio punto di forza.
Non solo: la band va ricordata anche per il suo batterista, Barry Graham Purkis, in arte Thunderstick, celebre per suonare dal vivo rinchiuso in una gabbia, col volto completamente coperto da una maschera e vestito con bizzarre tute. 
Li ho voluti comunque omaggiare con la foto inserita nel nostro post dell’Anteprima.

Purtroppo, dopo il discreto successo di ST, una serie di sfighe affossarono il progetto Samson: Thunderstick e Dickinson lasciarono la band (sarà un caso che gli Iron stessero incidendo “Killers” negli stessi studios e nello stesso periodo di “Shock Tactics”??!!), la label che li aveva sotto contratto, la RCA, dichiarò bancarotta e i manager che seguivano la band entrarono in collisione con Paul, il quale portò avanti il progetto con un nuovo cantante (Nicky Moore) ma senza ottenere alcun riscontro commerciale…
Per tutte queste ragioni quindi, i Samson avrebbero potuto tranquillamente far parte del nostro elenco, visto che rispondono perfettamente ai requisiti che avevamo descritto nella nostro Anteprima.

Il terzo disco rilasciato nel 1981 con cui ho dovuto fare i conti per la scrittura di questo post è “Spellbound” dei mitici Tygers of Pan Tang
Anche loro, a livello di sfighe assortite, si difendono, tanto che possiamo sicuramente appioppargli il termine di cult band.

“Spellbound”, quando uscì nel ’81, trovò una calorosissima accoglienza sia di critica che di pubblico. E non poteva essere diversamente visto che il disco funziona a meraviglia, senza cali di tensione e con una sezione ritmica travolgente, capace di trascinare l’ascoltatore in un turbine di emozioni continue, sia quando si corre a mille all’ora (“Gangland”, “Hellbound”, “Tyger Bay”), sia quando i toni si fanno più rarefatti e sognanti (nella spettacolare “Mirror” o nella conclusiva “Don’t Stop By”). Ma, ripeto, l’intero disco è una forza. Merito, soprattutto, sia della prova calda e avvolgente, ma anche molto potente, di Jon Deverill alla voce, che del fenomeno delle sei-corde John Sykes. Chitarrista che adoro e per il quale ho un debole. E se sono costretto, oggi, a “tagliarlo fuori”, ho in serbo per lui un posto al sole alla fine della nostra Rassegna…

Dopo “Spellbound”, la band, spinta da un’assurda logica di profitto dal suo entourage, continuò in maniera troppo veloce a pubblicare dischi in studio (rilasciando i buoni “Crazy Nights” e “The Cage” addirittura ad appena nove mesi di distanza l’uno dall’altro), senza però né la giusta promozione da parte della casa discografica (la statunitense MCA), né attraverso dei tour che potessero far circolare in maniera più consistente e duratura il nome della band. Che, scioltasi e riformatasi più volte, continua ad oggi ad avere un buon seguito in Giappone (come sempre mercato molto generoso verso l’heavy di stampo classico).

Ma alla fine della dolorosa cernita, la scelta per il 1981 è ricaduta sui Praying Mantis dei fratelli Tino e Chris Troy, e sul loro debutto “Time Tells No Lies”.
Anche loro facenti parte a pieno titolo della New Wave, e presenti nella compilation di riferimento con il brano “Captured City”, si distaccarono però dalle altre band coeve per aver esplorato la parte più melodica e AOR del nascente Heavy Metal. Se infatti il disco è caratterizzato da ritmi incalzanti e chitarre di una certa pesantezza per gli standard dell’epoca, al contempo non si perde mai l’attenzione per la melodia, l’orecchiabilità e l’immediatezza dei refrain. Chorus peraltro spesso cantati a più voci. Già. Perché una delle caratteristiche che rendono unici i PM, e il disco in questione, è che, con l’esclusione del batterista Dave Potts, gli altri tre membri della band (i fratelli Troy, appunto, e il secondo chitarrista Steve Carroll) si spartiscono equamente il ruolo di lead singer, alternandosi di brano in brano. E rendendo ancor più unico il tutto.
Nonostante un approccio apparentemente easy-listening non si scade mai nella banalità, grazie a una qualità di scrittura davvero alta, capace di variare a ciclo continuo il mood del disco riprendendo, e fondendoli in un’amalgama originale e personale, diversi stilemi.
A partire da quelli dell’hard rock settantiano che trovano largo spazio nell’opener “Cheated”, un esempio plastico di quanto detto: meno di 4 minuti di grande impatto, con accelerazioni e rallentamenti continui che rendono il tutto vario e coinvolgente. Una formula che ritroveremo più volte nel corso del platter.
Infatti, dopo aver omaggiato Ray Davies con la cover di “All Day and All of the Night” dei The Kinks (che, come sappiamo, da molti critici sono considerati gli autori di uno dei primi brani metal della storia; e cioè quella “You Really Got Me” portata poi alla ribalta del mondo hard ‘n’ heavy dalla cover eseguita dai Van Halen), ci aspetta “Running For Tomorrow”, canzone spettacolare che parte con un oscuro arpeggio e la voce sentita di Carroll, per poi liberarsi presto in una cavalcata heavy da brividi (potremmo dire “maideniana” se non fosse che, in quel momento, le due band erano coeve e avevano appena concluso un Tour assieme!), sublimata nel finale da un assolo di gran gusto.

Il resto del disco è un piacevole alternarsi, una sorta di duello (o di partita a tennis, se vogliamo) tra i due tipi di canzone sopraesposti: se la formula vincente di “Cheated” la ritroveremo, con la stessa alta qualità, anche in “Rich City Kids”, nella più AOR “Beads of Ebony” e nell’ottima “Flirting with Suicide”, invece le cavalcate à-la “Running for Tomorrow” saranno riproposte a volte in modo immediato e diretto (“Panic in the streets”) e a volte in maniera più articolata e meditata. 
Ed è proprio in questi momenti che i P.M. danno il meglio di se stessi, quando possono esprimersi in modo più ragionato e complesso, riuscendo in tali frangenti a realizzare vere e proprie perle di british heavy metal, trovando in questa struttura un afflato epico che non può lasciare indifferenti. A tal proposito è doveroso citare le sensazionali “Lovers to the Grave” (forse il brano summa del praying-mantis sound), “Children of the Earth” e la meravigliosa, conclusiva “Thirty Pieces of Silver”, che presenta un bellissimo testo sulla doppiezza e il cinismo degli uomini politici.

In definitiva TTNL rappresenta nel modo migliore l’Heavy Metal della New Wave nel suo lato più melodico. Ideale connubio tra le nuove sonorità che gli Iron stavano codificando, e al contempo portando al suo massimo livello con “Killers”, e la tradizione hard rock dei settanta.  

Incredibile come la band si perse artisticamente, non facendo sentire la propria voce per quasi dieci anni interi! Cosa che, come per gli Angel Witch, si spiega con una cronica instabilità della line-up che ne determinò lo scaricamento, e conseguentemente l’insuccesso nel medio/lungo periodo, dell’attivissima e professionale label Arista Rec.
E quando la band tornò sulle scene, sembrò essere diventata una sorta di ospizio per gli ex-membri degli Iron Maiden, visto che vi suonarono in diversi momenti Clive Burr alla batteria, Dennis Stratton alla chitarra e Paul Di’Anno dietro al microfono. Senza mai rinverdire i fasti artistici di TTNL, che rimarrà di gran lungo la loro produzione migliore. Ed esempio lungimirante di come fosse variegata la galassia della N.W.O.B.H.M. 
New Wave che visse nel 1981, come abbiamo riassunto citando l’alto numero di top albums che vennero pubblicati, probabilmente il suo anno migliore.