"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

6 nov 2015

MEKONG DELTA, THE...BAND THAT SHOULD NOT BE!



Una ventina d’anni fa, su una bancarella di libri usati, acquistai l’opera omnia di H.P. Lovecraft, dal titolo “Opere complete” (ed. SugarCo, 1983). Già da anni mi ero artisticamente invaghito del grande scrittore di Providence, ma in quell’enorme tomo ebbi la possibilità di leggere vari scritti che ancora non conoscevo tra cui “La musica di Erich Zann”, racconto del 1922, brevissimo ma come sempre molto intenso e inquietante.

Memore di questa lettura, molti anni dopo, fui molto sorpreso dal ritrovare lo stesso titolo in calce ad un’altra tipologia di espressione artistica, questa volta musicale: il secondo full lenght dei Mekong Delta.

A cura di Morningrise

Il preambolo per dire che no, il titolo di questo post non si riferisce a una storpiatura della celeberrima canzone dei Metallica contenuta in “Master of Puppets”, bensì fa riferimento solo ed unicamente al mitico Howard Phillips, e precisamente al suo meraviglioso racconto "La maschera di Innsmouth", cui è ispirata la song dei Four Horsemen.

Ricostruendo: trent’anni fa in Germania c’era un ingegnere del suono, tal Ralph Hubert, proprietario di un’etichetta discografica indipendente dal bislacco nome di Aaarrg (!). In quel periodo l’accostamento dei termini “Metal” e “Germania” andava a coincidere con la mitica “triade del thrash” Kreator-Destruction-Sodom che tra l’85 e l’86 debuttavano sul mercato con i loro rispettivi dischi d’esordio.
Se questi gruppi basavano la loro proposta su un approccio particolarmente grezzo e alquanto minimale, incentrato com’era su una scrittura piuttosto essenziale, giocata tutta su velocità e immediatezza, in Nord America il Thrash, che quell'aspetto l’aveva già felicemente praticato negli anni precedenti, si stava evolvendo nella sua componente più tecnica. 
Dagli Annihilator ai Watchtower, dai Forbidden ai Death Angel per arrivare alle grandi opere dei Mostri Sacri Megadeth e Metallica, la seconda metà degli anni ottanta definiva, per il thrash mondiale, un nuovo standard con cui confrontarsi: appunto quello technical/progr.

Alla triade germanica tutto questo evidentemente poco importava. Del resto l’Europa sul tema partiva più indietro. Ma…ma il buon Hubert dimostrò di non apprezzare questa “arretratezza” della scena thrash teutonica. Motivo? Bah…forse perché i musicisti tedeschi, in larga parte, hanno una formazione di studio classica, dove si punta molto sulla tecnica individuale, mentre i gruppi succitati non risaltavano certo per tecnica strumentale…o forse perché ancora il Metal era dominato dalle band anglosassoni (gli Helloween dovevano ancora salire alla ribalta), o magari per il timore di essere invischiati nel calderone del suddetto thrash in formato bacino-della-Ruhr
Insomma, non si sa come non si sa perché, Ralph decise che la sua creatura dovesse essere avvolta nel più totale mistero: i musicisti erano accreditati sotto falso nome e di show live neanche a parlarne.

Sarà stata anche questa precarietà e la mancanza di auto-promozione che farà si che la “casa Mekong Delta” avrà al suo ingresso continue porte girevoli, che porteranno nel corso degli anni a continui e destabilizzanti cambi di line-up (passeranno da lì grandissimi musicisti della scena teutonica, tra cui “Peavy” Wagner dei futuri Rage e i fenomenali drummers Uli Kusch e Jorg Michael, allora ancora giovanissimi). Ma il nostro Ralph era sempre presente, anche se si faceva chiamare “scandinaviamente” Bjorn Eklund! Ed è anche per questo motivo che, più che una band vera e propria, forse faremmo meglio a definire i M.D. come un ensemble, una sorta di pazza orchestra guidata da un ancor più folle Direttore, formata sì sempre dagli stessi strumenti ma con interpreti che si avvicendavano di "spettacolo in spettacolo" (nel nostro caso di album in album…).
E una delle tante stranezze collegate a questo unicum della storia metallara, è proprio quella collegata alla qualità di codesti "spettacoli": infatti i dischi migliori Hubert e soci li pubblicarono proprio nel periodo di “anonimato” della loro esistenza, quando ancora il progetto M.D. era avvolto da una fitta nebbia, e cioè nella seconda metà degli anni ottanta.
Dal 1991 in poi infatti Hubert riuscì a portare la sua strana creatura anche in concerto (sempre in Germania e dintorni, non sia mai che il resto del mondo potesse sconvolgersi dal fatto di vedere suonare musicisti tedeschi coi controcoglioni), ma i suoi successivi parti discografici subirono un certo ridimensionamento qualitativo (seppur comunque mantenendo standard elevati).

Ma andando al nocciolo della questione: cosa suonavano i M.D.? Ecco, appunto…adesso arriva il bello (e, per il sottoscritto, il "difficile"). Premetto una cosa: ho scelto di dedicargli un post perché mi sono ritornati in mente dopo aver scritto sui Voivod la scorsa settimana. Infatti, per il sottoscritto, i M.D. sono i….”Voivod europei”! Non tanto per le somiglianze musicali, che comunque esistono, quanto per il fatto che appartengono a quella quarta macro-categoria nel quale facevo rientrare quelle band che stimo tantissimo, per qualità e ingegno, ma che non riescono a emozionarmi più di tanto, a farmi vibrare l’anima. Ammetto quindi al contempo che la loro proposta è unica e geniale: un technical thrash di grande impatto, fortemente progressive, nel senso più alto del termine, ricco di cambi di tempo e chiaramente ispirato dalla musica classica, di cui Hubert è un appassionato cultore.

E così torniamo a quel titolo, “The Music of Erich Zann” (1988). Come un Direttore d’Orchestra posseduto da demoni indicibili, Hubert guida i suoi musicisti, e in particolare i due chitarristi R. Kelch e R. Stein, in funambolici intrecci chitarristici in una una ritmica sostenuta e variegata (opera dello stesso Hubert e del succitato batterista J. Michael). Se vi aggiungiamo le improbabili linee vocali di Wolfgang Borgmann, pauroso nei suoi stravolgenti acuti isterici, si capirà come TMOEZ sia un album paurosamente complesso, ma particolarmente affascinante. Insomma, non esageriamo se definiamo quest’opera come il primo Manifesto dell’evoluzione del thrash europeo in senso tecnico (i Coroner del resto dovevano ancora dare alle stampe il capolavoro “No more color”).

Andando avanti: i mirabili funambolismi strumentali sono ancora al centro del successivo “The Principle of Doubt” (1989) fino a giungere alla loro sublimazione nel capolavoro “Dances of Death” (1990). Quest’ultimo, senza tema di smentite, è un album pazzesco, immane. Lo considero, come “Nothingface” per gli anni ’80, uno dei dischi maggiormente rappresentativi dell’intera decade per il Metal tutto. Ed è un platter di appena 4 pezzi!! La meravigliosa copertina che vedete in cima al post, opera di J. Luetke (visionario disegnatore, sorta di novello H.R. Giger) è già programmatica. Il disco ci accoglie “gentilmente” (!) con la title track di quasi 20 minuti durante i quali il basso pulsante di Hubert guida l’ascia di Uwe Baltrusch in un turbine di riff e assoli che vanno a costituire una cattedrale di suoni malsani e conturbanti: è la summa del Mekong Delta sound, dove tutti gli stilemi dei due dischi precedenti sono mirabilmente riassunti in una canzone tanto difficile quanto ammaliante. E in cui si rincorrono, controllati da una tecnica esecutiva mostruosa, riff vorticosi, passaggi neoclassici ed ogni sorta di sperimentazione possibile. 
E se i due pezzi centrali (i riuscitissimi “Transgressor” e “True Believers”) tornano ad un abbozzo di forma-canzone, i Nostri per concludere si inventano una rivisitazione di “Night on a Bare Mountain” (alias “Notte sul Monte Calvo”) del compositore russo dell’800 Modest Mussorgskij. Del resto, come accennato, l’influenza della musica classica è sempre stata primaria per Hubert e in quest’opera viene profusa a piene mani, portando i limiti del technical thrash europeo decisamente a livelli d’avanguardia.

L’incauto ascoltatore che riuscisse a superare l’iniziale osticità (e a tratti, diciamocelo, anche la noia!) della loro proposta, verrà trasportato dalla pazza orchestra dei Mekong Delta in mondi paralleli, proprio come accaduto all'Io narrante con l’Erich Zann del racconto lovecraftiano che con la sua viola evocava suoni, ritmi e melodie di un mondo sconosciuto, di una dimensione “altra”. Una dimensione di un’oscurità abissale. Su cui affacciarsi rischia di essere molto pericoloso per l’equilibrio mentale (sempre musicalmente parlando, ovviamente!).

E allora: scolpiti nella pietra del Thrash Metal Europeo, assieme ai nomi di Mille Petrozza, Thomas “Angelripper” Such e Marcel “Schmier” Schirmer, va assolutamente affiancato quello, meno noto ma ugualmente seminale, di Ralph Hubert!

Per una band che should not be è davvero un risultato non da poco…