"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

14 nov 2015

BARBE A CONFRONTO: ROBERT WYATT VS TOM ARAYA




Probabilmente molti cultori del solo Metallo non conosceranno Robert Wyatt: per questo si rende necessaria una breve presentazione del personaggio, da annoverare sicuramente fra le figure più geniali del rock.

Robert Wyatt nasce come batterista: il suo stile fonde progressive e jazz. E’ lecito definirlo un virtuoso e quello che combina dietro le pelli possiamo sentirlo nei primi quattro album dei Soft Machine, esponenti di prim’ordine della cosiddetta scena di Canterbury, nonché una delle più influenti band in tema di rock progressivo. Wyatt militò nei Soft Machine Wyatt dal ‘66 al ’71, ma la sua indole visionaria e surreale lo portò presto fuori dal gruppo. Fondò così una nuova band, i Matching Mole, mentre qualche tempo prima, nel 1970, aveva rilasciato il suo primo album da solista: il capolavoro “The End of an Ear”, che verteva verso i territori dell’avanguardia dadaista. 

La sua carriera di batterista terminerà il 1° giugno del 1973: durante una festa di compleanno, per fare uno scherzo agli altri invitati, deciderà di uscire dalla finestra per potersi ripresentare alla porta d’ingresso e così lasciare tutti a bocca aperta. Lo scherzo però non andrà bene e per l’ebbro Wyatt la bravata si tradurrà in un salto nel vuoto di tre piani che lo costringerà su una sedia a rotelle per il resto della sua vita.

Quella notte il rock perse un grande batterista, ma guadagnò un autore immenso: Wyatt, infatti, decise di non abbandonare la musica, dedicandosi al canto, alle tastiere, agli strumenti a fiato e facendosi predisporre delle batterie speciali prive di charleston e grancassa. Il frutto della sua degenza in ospedale sarà il classico “Rock Bottom”, uscito nel 1974, indubbiamente uno dei momenti più alti del rock tutto. Da quel momento egli condurrà una vita ritirata, curato dall’amorevole moglie, circondato dall’affetto degli amici, nell’intimità delle quattro mura domestiche. E continuando, nel corso degli anni, a sfornare ottimi lavori.

Robert Wyatt aveva la barba fin dagli anni settanta, ma la barba che ci interessa è quella della maturità, quella della sua vita da invalido: una barba da grande artista, da uomo intelligente e raffinato militante politico. In Wyatt la barba la posso capire: è simbolo di saggezza, di una vita placida e riflessiva fatta di cultura, musica ricercata e visione profonda della vita.

Quello che non capisco è invece la barba di Araya 

Anno 2015: gli Slayer tornano con il loro nuovo album “Repentless”, il primo senza Hanneman.

Nel frattempo, da qualche anno a questa parte, la barba è tornata prepotentemente di moda: la portano gli hipster e non ci stupiamo se, dal fotomodello dell’alta moda, fino allo studentello universitario, tutti oggi “indossano” una folta barba.

Anche gli Slayer si sono “imbarboniti”, ma non penso che ciò sia dettato dalla volontà di seguire lo stile hipster. Holt e Bostaph hanno una “peluria” assai curata e nel complesso non sfigurano come onesti signori di mezza età. King, vabbè, non si può guardare: la sua barba è la tipica del metallaro che soffre di forti sensi di colpa perché ad un certo punto si è tagliato i capelli. Con la sua corpulenta figura egli sembra volerci dire: “Intanto mi raso a zero, per dimostrarti che non sono un fighetto, e poi mi faccio crescere una barba da camionista che come minimo mi arriva all’ombelico, e già che ci sono ingrasso di altri cinquanta chili!, vienimi adesso a dire che mi sono tagliato i capelli!”. Sebbene sia molto sgradevole alla vista, paradossalmente King è degli Slayer quello che ci tiene di più al look: è quello che appena possibile inforca gli occhiali da sole, che si fa tatuare nei posti più impensabili, che si rasa il cranio, che non solo si sfoltisce la barba ai lati, ma anche la pettina e l’attorciglia. No, indubbiamente la sua barba non ci preoccupa: come si diceva, è tipica del metallaro.

Nel metal, infatti, la barba non è un tabù, c’è sempre stata, soprattutto nelle zone meridionali degli Stati Uniti: lasciando perdere gli ZZ Top che fanno storia a sé e che sulle barbe c’hanno costruito una carriera, la barba, per esempio, al texano piace molto, probabilmente per meglio conservare gli aromi della birra e della rostinciana “catturati” durante un bel barbecue a rutto libero. Ma senza scomodare il profondo sud, la barba è molto in voga negli ambienti del post-hardcore e del post-metal, dove il dress code da boscaiolo è praticamente d’obbligo.

Ma Araya cosa c’entra con il post-hardcore? Vederlo in quelle condizioni mi ha un po’ impressionato: capello bianco, barba crespa, incolta, sfibrata e sbiancata di brutto, sembra proprio il clochard della stazione. Ci saremmo magari aspettati un pizzo lungo cinquanta centimetri, basettoni da tamarro sudamericano, ma non una barba così. Non ci scandalizziamo, ma ci chiediamo: perché lo ha fatto?

La barba richiama un universo ancestrale a cui spesso fanno riferimento le band dedite al post-hardcore, ma non è il caso degli Slayer, che certo non ci parlano di tribù, riti pagani e caccia al cervo. Anzi, proprio l’incontrario: l’ultimo loro album è un concentrato di odio urbano, di avversione, ostilità, disprezzo, inimicizia, malevolenza, risentimento, rancore, animosità, astio, acredine, livore incondizionato verso la politica, l’economia, la società, l’America, il mondo, tutti. Testi che sembrano scritti da Beppe Grillo:

“Stufo di questa merda chiamata politica
Supporto vitale di un’economia morta
Leader mondiali dal cervello morto cospirano
Agiscono con malizia solo per alimentare il fuoco”

Questo, per esempio, è quello che recita il singolo “Implode”. Niente viene perdonato dagli Slayer, niente viene compreso perché non c’è niente da comprendere: la merda non si giustifica e la merda fumante annebbia il mondo intero. Non c’è niente di costruttivo nella nuova novella degli Slayer: al massimo c’è un invito ad assecondare l’escalation di violenza e distruzione per velocizzare il processo di disgregazione della società e del mondo.

Allora torno al buon Wyatt, che m’immagino a tavola in un bel cascinale nella sua buona campagna inglese a fare discorsi educati con gente pacata, davanti ad un buon vino e pietanze prelibate, e con un bel jazz d’annata di sottofondo. Discorsi sui grandi sistemi, volti a comprendere la complessità che ci circonda, a trovare soluzioni, il modo per agevolare il transito pacifico verso un nuovo sistema mondiale condiviso da tutti i popoli e basato sulla solidarietà e sull’eco-sostenibilità.

In “Just as You Are”, bel brano di “Comicopera” (del 2007), udiamo: “Perché non cambierò niente di te/ mai e poi mai cambierò una cosa di te/ proverò ad amarti così come sei”. Versi, questi, che esprimono un sofferto e faticoso processo di accettazione del Diverso. Nel suo caso una bella barba folta e sbiancata è l’ideale compendio di un volto intelligente, rilassato, ironico, sorridente, ma anche in grado di riflettere una vasta e complessa interiorità affranta dalle sue difficili condizioni di salute e da un’intelligenza emotiva che gli permette di entrare in empatia con gli altri, di essere partecipe e soffrire delle ingiustizie subite dai più sfortunati.

Ma la barba di Araya? Faccia rugosa da cileno che da più di trent’anni sbraita senza pietà una rabbia dilagante che non sembra avere confini. Una violenza vocale e verbale che, passo dopo passo, ha abbracciato tutto lo scibile umano: in pratica non si salva più niente. Laddove un preoccupato ed irrequieto Wyatt si accarezza la lunga barba riflettendo sui temi della guerra e dello sfruttamento, la barba incolta di Araya si alza ed abbassa trascinata da una mascella che secerne incessantemente invettive contro tutti.

Ho cercato dunque la risposta nei testi di “Repentless” e forse ho capito: Araya s’è rotto i coglioni, ha perso ogni velleità estetica perché, sorpassati i cinquant’anni, di illusioni se ne fa oramai ben poche. Un po’ come quegli anziani che da un certo punto in poi escono di casa e vanno a comprare il giornale in tuta e ciabatte. Fanculo dunque anche il barbiere, fanculo la moglie se mi dice che faccio schifo, fanculo tutti quanti. La morte dell’amico Hanneman non deve sicuramente aver migliorato l’umore. La barba di Araya nasce da questo: dall’amarezza, dalla trascuratezza, dalla non-speranza, dalla mancanza di uno spirito costruttivo abbinata alla convinzione di dover lottare corpo a corpo, giorno dopo giorno, casa per casa, fino al sopraggiungere del collasso definitivo del pianeta terra.

Anche Araya, come Wyatt, ha la sua ricetta per cambiare il mondo:

“Stai fissando il venditore di atrocità
Un fottuto delinquente di pari opportunità
Ho il piano che cambierà questo mondo
Stai indietro e guarda i semi dell’odio aprirsi

Non esiterei mai a spezzarti
Violentarti, recidere ogni parte di te
Ti illumino con il cherosene
Ti osservo bruciare, ti osservo sanguinare
Sono una tortura senza restrizioni
Cancro sparato dai miei occhi
Certo che sì, l’agonia è reale
Posso mostrarti come ci si sente
La violenza pulsa nelle mie vene
La morte regna per sempre”

(da “Atrocity Vendor” – “Repentless”, 2015)