"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

22 set 2015

LE DIECI PIU' ATROCI CANZONI D'AMORE DEL METAL - LA LEGGENDA CONTINUA: CARCASS - "NO LOVE LOST"




Conclusasi la rassegna delle dieci più atroci canzoni d’amore del metal, Metal Mirror decide di affondare il coltello nella piaga, nella convinzione che il tema sia meritevole di essere ulteriormente approfondito.

Laddove l’analisi del Dottore si è sviluppata come un vera e propria sinfonia “in crescendo” che ha inteso trattare il fenomeno dell’Amore (ed in particolare quello della sua perdita) partendo dalla status di passività espresso dagli Helloween, per culminare con la furia sanguinaria degli Impaled Nazarene, noi ci sentiamo di aprire un sentiero laterale che ci conduce niente meno che alla insospettabile saggezza dei Carcass. 

La domanda nasce spontanea: cosa potranno mai insegnarci in campo amoroso i Carcass, campioni del gore-death-metal più truculento, autori di testi che più che altro sembrano estratti da manuali di anatomia o chirurgia? Titoli come “Genital Grinder”, “Vomited Anal Tract” e “Malignant Defecation” sono eloquenti, eppure nel 1993 gli inglesi davano alle stampe “Heartwork”, album della maturità che li traghettava verso non preventivabili (fino ad un giorno prima) lidi melodici.

Anche i testi delle canzoni subirono un mutamento, orientandosi verso tematiche più complesse e per certi aspetti profonde. Fra questi testi ne troviamo proprio uno che parla d’amore: è il caso del secondo singolo scelto per promuovere l’album, “No Love Lost”, che non è proprio la canzone d’amore che potrebbe farti Bon Jovi o Grignani. Vediamo dunque cosa i Carcass (o meglio Jeff Walker, cantante/bassista, nonché autore del testo) volessero raccontarci con questo brano dall’insolito testo per una band dedita al death metal.

Ad un primo sguardo non si rinvengono particolari significati in liriche di questo tenore:

Risveglio sensuale
Il sentimento che intorpidisce è morto
Concezione romanzata
Il sintetizzato cuore spezzato deve sanguinare

Il death non è certo musica per poeti ed anche la metrica che deve rispettare chi canta in growl o in screaming (come Walker, in questo album sempre più acido e digrignante) non si presta a divenire spazio ideale per l’esposizione di concetti chissà quanto complessi. Ad eccezione di Chuck Schuldiner (che riusciva a scrivere testi intelligenti dai penetranti risvolti sociologici, e a conferire loro, grazie anche a quel modo tagliente e spigoloso di articolare le parole, sfumature che andavano dal cinico al sentimentale) e di pochi altri (mi vengono in mente i testi filosofici scaturiti dalla penna dell’indimenticato Marco Foddis, batterista e paroliere dei Pestilence), a parte questi sporadici casi, un testo death metal è spesso un elenco: di parole (spesso richiamanti un immaginario nefasto), di azioni (spesso violente) o, nel migliore dei casi, di concetti (di puntuale estrazione pessimista/nichilista). Da queste prime righe, il testo di “No Love Lost” non sembra fare eccezione. Le frasi si susseguono scollegate: più che al significato, si guarda al suono delle parole, adottate come strumenti per l’evocazione di un universo violento ed ottenebrante, piuttosto che come veicolo di un messaggio dal senso compiuto. Ma proseguiamo.

Senza emozioni suonano le corde del tuo cuore
Strimpellate e scisse nella memoria di una tragica serenata
(Un coro tragico)
Senza emozioni le corde del tuo cuore si rompono
Spezzate e scisse nella melodia di un triste e tragico cliché

Da un lato è palese come il modus operandi dei Carcass sia quello di proseguire sulla strada del macabro non-sense, appesantendo ogni singola enunciazione con un’aggettivazione ridondante e tendente al morboso (“tragica serenata”, “un coro tragico”, “triste e tragico cliché”). Dall’altro però una certa atmosfera si viene lentamente a creare. Ricordiamoci che si parla d’amore: parole come “triste” e “tragico” sono forse scontate, ma come altro può essere definito un amore finito, perduto, se non “triste” e “tragico”?

Il fatto che il discorso sia formulato in seconda persona fa supporre che esso sia rivolto verso un tu che secondo me va letto come un “tu generico” (e quindi il messaggio è universale e vale per tutti, uomo o donna che sia), e non come una semplice controparte femminile (la classica “lei” abbandonata). In ogni caso, sia come sia, poco importa capire chi-lascia-chi: è evidente che l’Io Narrante è il vincitore morale della faccenda. Ed è da quella voce che dobbiamo aspettarci la verità svelata nel testo, la quale presto giungerà. Di fatto il ritornello cambia completamente le carte in tavola: come il sole che risplende appena il cielo nuvoloso si apre, una insospettabile saggezza scaturisce da quella che poteva sembrare una normalissima manfrina sul mal d’amore, soltanto raccontata à la death metal, ossia in modo cinico e rincarando forzatamente la dose sugli aspetti negativi (il death stesso, stilisticamente, nasce come estremizzazione del thrash-metal: più violento, più veloce, in esso l’urlo si trasforma in growl, le ritmiche in blast-beat).

Nessun amore (è) perduto
Quando tutto è stato detto e compiuto
Non c’è amore che sia perduto

Eccoci dunque alla svolta. Quello che ci raccontano i Carcass, dietro la scorza dura della loro musica, è una brillante intuizione che raramente abbiamo rinvenuto nel vasto canzoniere dell’amore di tutti i tempi e di tutti i luoghi (e di tutti i laghi, potremmo aggiungere): un amore che finisce non è un amore perduto, un non-amore solo perché non esiste più.

L’amore, come esperienza, è accaduto. Esso non può essere cancellato, annientato come-se-non-fosse-mai-esistito. Non ho mai sopportato coloro che, finita una storia, rinnegano fin dall’inizio quella stessa storia. Frasi come “Non ti ho mai amato”, “Ho solo perso tempo” sono quasi peggio della già analizzata “Anche se mi lasci, il nostro amore non può finire”. Capire che quel “qualcosa” è successo, irrimediabilmente ed irreversibilmente, aiuta a sopportare la fine di quel “qualcosa” e sostenerne il lutto.

 “Nessun amore è perduto, quando tutto è stato detto e compiuto”. Questa frase potrebbe essere interpretata nel seguente modo: se le cose hanno avuto il loro corso fisiologico (sono nate, cresciute, poi declinate ed infine morte) l’amore, nel momento che cessa, continua ad esistere come esperienza (si spera positiva, o perlomeno costruttiva) come memoria e come bagaglio esperienziale: non è stato tempo perso, non è stata un vuoto incantesimo, una fase di non-vissuto. Un po’ come la vita, destinata a finire o a cambiare forma: accettare questo significa accettare la vita stessa, come il trascorrere delle stagioni, lo spettacolo della natura che muore per rinascere, gli elementi che si mescolano e ricompongono nel sempiterno mutare dell’esistenza. Attaccarsi all’eco di ciò che si è perduto e non impiegare le energie verso il nuovo, nell’ineluttabile mutare delle cose, nell’inarrestabile metamorfosi della vita che si tramuta in morte e nuovamente in vita, significa per davvero perdere tempo. Perdere. 

Attaccarsi alla fine di una storia (piangendo, disperandosi, deprimendosi o, stalkizzando il proprio partner) è infatti la stessa cosa che attaccarsi alla vita non comprendendone la natura necessariamente temporanea (almeno nella sua accezione terrena, che poi è l’unica veramente importante perché l’unica che possiamo conoscere finché siamo vivi). Niente è per sempre, tanto meno l’amore: per questo credere nell’immortalità dell’amore è un’illusione che si dovrà gioco forza scontrare con la realtà e con l’esperienza. Credere nella sua inevitabile fine, è invece l’unico modo per poter vivere con onestà e pienezza il sentimento dell’amore, che è il sentimento caduco per antonomasia.

Saggio messaggio di matura e consapevole (ed anche dolorosa) accettazione, che può essere visto di grande consolazione in un contesto di morte e lutto, sebbene esso poggi su una visione cinica e disillusa dell’amore. Ma del resto una band death-metal della vecchia scuola non poteva cantare quanto fosse bello l’amore.  Basti vedere come continua il testo:

Il basso costo dell’amare
Languida farsa
L’umana fragilità e debolezza
Son facili prede
Come sanguinerà il tuo infelice cuore?

Ma nonostante quelle forzature che sono un po’ figlie dei cliché del genere musicale (dover essere a tutti i costi cattivi e negativi), quello che i Carcass finiscono per insegnarci è che la precarietà non è il vero problema, perché questa precarietà può essere valorizzata, riempita di contenuti e significati, solo se finalmente essa viene riconosciuta ed accettata come il modus normale di vivere: di vivere l’amore e tutto il resto delle umane questioni. A costo di svilirne la magia una volta che le umane questioni siano state private dell’aura luccicante dell’eternità.

In totale coerenza con questo assunto, i Carcass si scioglieranno di lì a poco, appena dopo l’uscita dell’album successivo, quel poco riuscito “Swansong”, che davvero costituirà il canto del cigno per la storica formazione inglese. La recente reunion, del resto, nemmeno la considero (chi è tornerebbe mai, se non disperato, con un/a ex?): a me basta tornare ai primi quattro capolavori della band, perché quando tutto è stato detto e compiuto, non vi è niente che sia perduto.