"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

13 set 2015

I SENSI DI COLPA DI MIKAEL AKERFELDT NEGLI INCIPIT DEGLI ALBUM DEGLI OPETH (parte seconda)




Nessuno lo può più frenare, nessuno gli può più impedire di far cazzate. La formazione si è ridotta ad una compagine di mesti esecutori del suo volere, assoldati per dire “si”, oppure “grande Akerfeldt, sei il migliore, un’idea così non ce l’ha avuta nemmeno Petrucci..ehm..Robert Fripp!”. L’unica voce rimasta degna di essere ascoltata è quella di Steven Wilson. Ma Wilson ed Akerfeldt insieme è come dire “Scemo + Scemo”: se Akerfeldt è un coglione, Wilson è un coglione al quadrato. Impossibile pretendere che Wilson suggerisca sobrietà e cautela ad Akerfeldt. Sarebbe come avere un problema con l’alcool e chiedere a Lemmy di darti una mano a superarlo (sì, magari bevendoci sopra…).

Dopo la carrellata degli incipit degli album degli Opeth, quando gli svedesi erano una band fatta di bravi ragazzi, onesti e con quella giusta dose di pepe al culo per poter dare ogni volta il meglio di sé (vedi la prima parte), giungiamo finalmente a dove volevamo arrivare, ossia il punto esatto in cui casca l’asino.

Esce “Heritage”, il più controverso e spiazzante degli album degli Opeth. Tanto per cominciare il growl viene abbandonato definitivamente. Di death non ce n’è più. Ma anche di metal non è che ve ne sia rimasto molto! Non che sia un problema (nel 2001 eravamo fra quelli che chiedevano a gran voce l’album acustico degli Opeth!), ma l’atto di arroganza è importante: Akerfeldt non solo si è fatto crescere dei pessimi baffi in stile Frank Zappa, ma decide di snaturare la personalità della sua band per trasformarla nel freddo laboratorio delle sue ambizioni. Ma è solo come un cane, basta vederlo nella foto del cd che, con quei baffi di merda, gesticola per dare indicazioni a tutti su cosa devono suonare e come farlo. Ma sostanzialmente è un uomo solo. Anche il tastierista Per Wiberg (entrato in formazione in “Ghost Reveries”) decide di abbandonare la baracca (dettaglio esplicitamente suggerito dalla copertina, dove simpaticamente la testa di Wiberg, invece di essere appesa a mo’ di frutto ai rami dell’albero della genialità insieme a quelle degli altri componenti della band, è già a terra ad imputridire).

Ma torniamo ai nostri incipit: l’apertura viene affidata ad un pezzo che, se si guarda bene, è avulso rispetto al resto dell’album. Si tratta di una traccia pianistica di un paio di minuti circa (la titletrack), eseguita dal nuovo tastierista (non ancora ufficialmente in formazione) Joakim Svalberg, entrato in pianta stabile dopo la dipartita di Wiberg. Il brano non è però la tipica introduzione pianistica: quella pomposa, o malinconica, o tragica che potrebbe farti una band metal qualsiasi che assolda un nerd diplomato al conservatorio qualsiasi. No, è un giro sornione che vagamente ricorda un compositore come Satie. Atto di spocchia assoluta (ao, manco i Dream Theater c’hanno avuto un’idea così!).

Più che altro mi pare che qui Akerfeldt abbia proprio cagato fuori dal vaso. Con “Heritage”, anzitutto, si toglie ogni sfizio da fan (qui copio i King Crimson, qua i Rainbow, là gli Area) ed ogni sfizio da intenditore (dell’ultima ora), disseminando per tutto l’album dotti richiami alla tradizione dark-progressive, anche quella più nascosta (Van der Graaf Generator, High Tide, Black Widow ecc.), di cui fra l’altro l’album scippa il mood cupo e stregonesco (tanto per azzerare le ultime possibili critiche). Rifinisce infine gli arrangiamenti, cura i suoni nei minimi particolari ed allestisce l’album (nella sua testa) perfetto (non preoccupandosi di aver perso nel frattempo la personalità). E, a fine registrazione, toh!, l’Akerfeldt ci butta dentro anche l’intro pianistico à la Satie . E lo fa quasi con noncuranza, con lo spirito di chi fa palestra tutto l’anno, ed una sera a cena ordina una bistecca, due bistecche, tre contorni (pure il fritto!), ci butta sopra un paio di litrate di buon vino rosso ed alla fine, pieno come un porco, per sola gola, chiude il pasto con una panna cotta che non ci stava un cazzo (più caffè, ammazzacaffè ed una birra da sessantasei presa dal bengalino aperto tutta la notte, prima di andare a casa!). Per poi cosa? L’album guadagnerà forse nuovi ammiratori sul versante neo-prog (trainato dai successi solisti di Wilson), ma farà sicuramente fermentare serie perplessità nello zoccolo duro dei fan. E in questo caso, la verità non sta nel mezzo, questa volta hanno ragione i metallari, che, quanto a cuore, ci vedono meglio di tutti: “Heritage” avrà anche degli spunti interessanti, ma rimane un album francamente poco ispirato, privo di sentimento ed eccessivamente di maniera.

Che l’abbia capito anche Akefeldt? Con “Pale Communion” la diarrea è dietro l’angolo, la sgommata di merda nelle mutande un rischio tangibile. Glielo avevano detto: fai cagare, Akerfeldt! Ha sputtanato gli Opeth, sei un fasullo, la tua musica è tutt’uncopiancolla. Ma Akerfeldt non ama le critiche ed è troppo fiero per tornare indietro ed ammettere di aver sbagliato. Decide perciò di procedere rincarando la dose. Akerfeldt crede in quello che fa, ma l’inizio di “Pale Communion” tradisce qualche incertezza e merita di essere analizzato.

La canzone in questione è “Eternal Rains Will Come”. Partiamo con due dati tecnici: dura 6 minuti e 43 secondi, ma prima che Akerfeldt emetta il primo vagito passano 3 minuti e 8 secondi (quasi la metà del brano!). Cosa succede in quel lasso di tempo? Metal Mirror lo ha scoperto per voi:

- 3 secondi: controtempi al cardiopalma, stacco prog classico in stile “Tarkus” (Emerson, Lake & Palmer), poi prevedibile pausa-imprevedibile;
- 9 secondi: la batteria monta e monta sempre di più, accompagnata dall’imperante organaccio in un crescendo che conduce a qualcos’altro;
- 7 secondi: attaccano finalmente le chitarre in una micro-porzione di arrembante rock che pare sia in procinto di spalancare la situazione a cose grandiose. In realtà tutto di colpo si ferma nuovamente per…
- 15 secondi: arpeggio di basso inquietante e cauto sottofondo jazzato, come se qualcosa (di malvagio) potesse succedere da un momento all’altro;
- 41 secondi: l’organo hammond si rimette a sminestrare numeri da capogiro: è evidentemente una grande festa di musica!
- 45 secondi: tutto si ferma nuovamente per lasciare spazio alla quiete di un pianoforte vagamente sinistro (sensi di colpa galoppanti per Akerfeldt: sarò stato troppo “buono”, gioioso? Cosa diranno di me? Devo subito imprimere malvagità con atmosfere horror!);
32 secondi: riattacca l’organo solenne ed indefesso, delineando finalmente il tema portante del brano (che poi, senza ironia, è l’ennesima variazione di “Tarkus” degli EL&P);
Al punto 3:08 entra la voce di Akerfeldt e possiamo considerare il brano ufficialmente iniziato.

Non ho studiato psicologia, ma in questo inizio convulsivo/compulsivo io ci leggo che Akerfeldt si è sentito in dovere di dimostrare (al pubblico, a Wilson e forse a se stesso) che:
- sa suonare
- ha cultura musicale
- se ne intende di prog
- se ne intende di jazz
- gli piacciono le atmosfere dark
- sa integrare mondi diversi
- è oramai più un regista che un musicista (visto che di chitarra ce n’è poca e lascia fare tutto agli altri)
- non gli piacciono le soluzioni lineari e scontate
- sa essere dolce, epico, aggressivo, intelligente, intellettuale, raffinato (qualcuno cerca marito?)  

E… se a voi tutto questo non piace, dovete almeno ammettere tutte le cose di cui sopra!

Bene, detto questo, un’ultima serie di quesiti che ci tolgono il sonno:
- L’Akerfeld è definitivamente finito come artista? Da lui dovremo aspettarci non altro che album forzatamente sempre diversi, forzatamente meno metal, forzatamente (forse un giorno) meno rock?
- Tornerà invece l’Akerfeldt a cantare in growl? Tornerà indietro l’Akerfeldt come hanno fatto tutti gli altri? Paradise Lost, Moonspell, My Dying Bride ecc.? E, se lo farà, tornerà a piacerci?

A difesa di Akerfeldt, però, c’è da dire una cosa: “Pale Communion” è il suo undicesimo album…ecco, ho detto tutto. È anche lecito aspettarsi che un talento nel tempo si spenga. Che cosa facevano i Led Zeppelin all’undicesimo album? Manco più esistevano, ecco che cosa facevano i Led Zeppelin.

Pertanto Akerfeldt va preso per quello che è: un guascone che sfornerà un disco dignitoso ogni tre anni. A noi, tutto sommato, sta bene. Più che altro andrebbe spiegato a lui, così si tranquillizza e si mette il cuore in pace.