"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

16 ago 2015

STEVE VON TILL: IL CANTAUTORE DELL'APOCALISSE




I MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL

FUORI CONCORSO: “A LIFE UNTO ITSELF”

Prima di andare a scoprire quali sono i dieci album non-metal concepiti e dati alla luce da band o artisti metal (vedi anteprima), ci concediamo il lusso di una piccola divagazione. Se c’è un uomo, un duro, uno dei “nostri” che non può sfigurare nei “salotti buoni” della “Musica Bene”, quello è Steve Von Till: voce, chitarra ed anima (insieme a Scott Kelly) dei letali Neurosis, nonché protagonista di una carriera solista di pregio che lo rivela insospettabile cantautore.


Perché riteniamo il suo caso un “divagare” rispetto alla retta via delle nostre riflessioni? Per due semplici motivi:

1) Sebbene i Neurosis abbiano contribuito più di ogni altro a cambiare il volto del metal degli ultimi quindici anni, essi non si possono definire metal in senso stretto. Non rientrano dunque nel tema da noi trattato, visto che parliamo di metallari con sacca (di pelle e borchie!) in spalla che decidono di avventurarsi fuori dal Reame del Metallo. La contaminazione e la spinta evolutiva rimangono due fattori saldamente radicati nel DNA della band americana, che nasce come superamento/ampliamento degli stilemi classici dell’hardcore. Poco ci stupisce, dunque, una loro evoluzione in qualsiasi direzione. E sebbene la loro musica sia violentissima, pesantissima ed intrisa di Black Sabbath da cima a piedi, molti metallari non si riconoscono in essa, mentre un grande numero di loro fan provengono dagli ambiti più disparati. Insomma: considerateli post-hardcore, post-metal, quello che diavolo volete, resta il fatto che non sono sicuramente un fenomeno culturalmente legato al solo metal.

2) L’operato in solitaria di Steve Von Till non è un’evoluzione dei Neurosis, ma un percorso parallelo e per questo sarebbe metodologicamente non corretto considerarlo nella nostra trattazione. Il “rocker” che si distacca un attimo dalla sua band per ritagliarsi un momento di intimità (vedi il Bruce Springsteen di “Nebraska”, armato di sola chitarra acustica ed armonica a bocca) è una situazione tipica che non suscita clamore, ma diviene un archetipo del rock e dunque del metal. A parte Klaus Meine (che non sa suonare un’emerita mazza, salvo il tamburello che sovente ama sbattersi sulle chiappe), tutti i vocalist, più o meno, sanno strimpellare una chitarra almeno il lasso di tempo che dura una ballata: pensate al Bruce Dickinson di “Tears of the Dragon” o a Jon Bon Jovi in “Dead or Alive”. 

Un conto però è se poi il disco acustico te lo fa Bon Jovi, un bonazzo che fa musica per adolescentesse in calore. Un conto se lo te fa un demonio pelato e barbuto che vomita parole incomprensibili e mette a dura prova le corde della sua chitarra in tour de force elettrici che sicuramente superano, quanto a violenza ed intensità, molte delle estrinsecazioni più estreme del metal. Prendete un album qualsiasi dei Neurosis (che so, anche quel “Through Silver in Blood” che ci siamo degnati di analizzare in queste pagine)… cos’è la musica dei Neurosis se non: distorsioni tremende, rutilanti percussioni, urla stridenti di derivazione hardcore e tutto quello che ci siamo dilungati a descrivere? Torno dunque al punto 1: chiamatelo metal o Antonio o Gerardo o Sbirulino, ma questa musica rimane un gran bel bordello.

E’ interessante, a questo punto, individuare i punti di contatto fra quanto appena descritto e quel cantautorato minimale che ci viene offerto dal solo Steve Von Till.

Formalmente parlando, le zone di intersezione non sono molte: il cantautorato di Von Till guarda ai classici della tradizione folk americana, sicuramente a Johnny Cash (che è il primo nome che viene in mente), ma anche ad uno stuolo di artisti più o meno conosciuti (Townes Van Zandt, per esempio, che è stato oggetto di un bell’album-tributo di qualche anno fa, che vedeva protagonisti lo stesso Von Till, il compare Scott Kelly (che fra l’altro coltiva una carriera solista molto simile a quella del collega) e l’inaffondabile Wino. Pertanto un cantautorato epico, visionario, dalle forti tinte country che si sviluppa sui binari di chitarra acustica/voce. Una voce che, per quanto roca e grattante (ricorda non poco le ugole al vetriolo di Mark Lanegan e Tom Waits), non ha niente a che vedere con quei vocalizzi disumani che sono il perfetto complemento alle bordate sonore di casa Neurosis. Di elettricità, salvo sporadiche eccezioni, manco se ne parla. Batteria, ritmi tribali: men che zero. Al massimo qualche ricamo di chitarra slide e la sporcizia sottocutanea di striscianti droni.

Quello che invece colpisce è la coerenza concettuale che unisce due universi così apparentemente distanti. L’elettricità degli accordi imponenti si stempera nello stanco reiterare di note appena accennate di chitarra acustica; le urla-lacera-tonsille in un latrato sommesso e sconsolato: ma il mood apocalittico, il sapore arcaico, l’evocazione delle sempiterne afflizioni dell’essere umano innanzi al collasso del suo mondo, in pratica tutto il logoro immaginario dei Neurosis, continuano a vibrare nelle ballate oscure di questo cowboy che si approssima mestamente alla sua ultima frontiera: la Fine.

Von Till ci incuriosì dunque con un esordio semplice ed efficace come “As the Crow Flies” (2000); ci ha poi stupito per la costanza e la raffinata maturità espresse in lavori eccelsi come “If I Should Fall to the Field” (2002) e “A Grave is a Grim Horse” (2008). E continua a deliziarci con il suo ultimo lavoro, rilasciato proprio quest’anno, che porta il nome di “A Life Unto Itself” (2015). Tutta la carriera solista di Steve Von Till merita di essere acquistata, ascoltata, approfondita. Al neofita, però, ci sentiamo di consigliare “A Life Unto Itself” non perché sia necessariamente il capitolo migliore della saga, ma perché in esso il buon Von Till fa un piccolo passo indietro, che per il metallaro medio significa un passo avanti (ed è a questo pubblico che noi ci rivolgiamo). Mi spiego: laddove agli inizi della sua carriera solista Von Till aveva bisogno di tracciare una netta linea divisoria fra quello che combinava nei Neurosis e quello che architettava per conto proprio (anche solo per una questione prettamente identitaria), oggi, con una maggiore padronanza dei propri mezzi espressivi, il Von Till cantautore è tanto maturo che può permettersi di riappropriarsi di qualche elemento della propria visione artistica, senza rinnegare il percorso intrapreso, ma anzi integrandolo con nuove sfumature e rendendolo quindi più ricco e personale.

Del resto nel metal è frequente: avete presente il celeberrimo Dottor Stranamore (quello della pellicola di Stanley Kubrick, impersonato da Peter Sellers) che di tanto in tanto gli scappa il braccetto teso a mo’ di saluto nazista sebbene si sforzi di non apparire quello che è (ossia un nazista)? Ebbene, la stessa cosa capita al metallaro che smette di essere metallaro: all’inizio è animato da buone intenzioni, sta buono, poi l’attenzione cala e TAC!, ecco che ci scappa di nuovo la chitarra elettrica!

E così accade più volte nell’ultimo lavoro di Von Till: la vocazione cantautrice viene “sporcata” da sporadiche spennellate di chitarra distorta, da oscure meditazioni ambient e persino da inquietanti rituali/mantra canori che fanno parte del bagaglio espressivo che il Nostro ha avuto modo di maturare non solo in seno ai Neurosis, ma anche in altri progetti quali Tribes of Neurot e Harvestman. L’ossatura, ripeto, rimane composta da una chitarra acustica goffamente strimpellata da manoni callosi da zappatore di campo e da una vociaccia da contadinone stitico. 

In “A Life Unto Itself”, in realtà, si toccano vette artistiche che sono veramente eloquenti per quanto riguarda il tema che stiamo toccando. Che poi sarebbe: il metal è solo rumore, suonato da ignoranti ed incompetenti? Toh: ascoltati questo e ricrediti! Ci vuole però cultura musicale anche per ascoltare la roba solista di Steve Von Till, che non è che sia robetta agile agile. Punti deboli: 1) seppur non perduri molto (circa tre quarti d’ora) l’album può seriamente sfondare le palle; 2) la voce di Von Till è terribilmente monotona; 3) i ritornelli arrancano, spesso si fa fatica a sopportare un passaggio da strofa e ritornello, a volte la reiterata riproposizione dei medesimi accordi di chitarra fa venire il latte alle ginocchia. Beninteso: niente peggio di quanto combinato da altri cantautori minimalisti iper-blasonati: un nome su tutti, il Mark Kozelek dei Sun Kil Moon.

Punti di forza: Steve Von Till è l’unico fra i grezzoni di tutto il mondo metal/para-metal che possa vantare una sensibilità da autentico cantautore. La sua voce è monocorde, ma spaventevolmente espressiva; i suoi brani semplici, ma pregni di atmosfera, pathos ed efficaci come devono essere, del resto, i frutti del folk-cantautorato americano che nasce dal blues derelitto dei neri zappatori di campi, o raccoglitori di cotone, o costruttori di linee ferroviarie sotto il sole cocente. E’ la polvere, il fieno delle balle nei campi, la merda dell’America rurale che si respira nella musica di Von Till. Sincero, genuino, paroliere criptico e visionario, artista capace di rivaleggiare con i grandi del cantautorato contemporaneo.

E con in più una capacità di “scavo interiore” che molti altri non possono avere perché non provenienti dalle aspre profondità delle miniere metallifere: passaggi ambient da brivido, slanci di viola e violino che evocano un folk ancestrale che fa accapponare la pelle. E poi quel rantolo tenebroso che si fa veicolo di messaggi di uno sconforto assoluto. Il coraggio di spingersi oltre, ancora più sotto, picchiando duro con il piccone esistenziale forgiato fra l’incudine e il martello della devastante poetica apocalittica dei Neurosis: il cantautorato come specchio gentile della musica brutale del post-harcore o del post-metal che dir si voglia. Ecco cosa manca ai semplici cantautori, nati e cresciuti a pane e Nick Drake, e che invece possiedono questi reduci malconci dalle trincee putride del metallo.