"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

19 lug 2015

NEUROSIS: L'ALFA E L'OMEGA DEL “NUOVO METAL”


I MIGLIORI DIECI ALBUM DEL “NUOVO METAL”
1° CLASSIFICATO: “THROUGH SILVER IN BLOOD”

O anche l'inevitabilità dell'ovvio…

La nostra rassegna si conclude dunque con un'altra soluzione scontata ma necessaria, perché “Through Silver in Blood” è semplicemente l’album che un giorno metterei in mano a mio nipote per spiegargli come se la passava il metal nei lontani anni duemila. E, a pensarci bene, è strano che l'album più rappresentativo del terzo millennio sia uscito nel 1996 (come “Ӕnima” dei Tool, secondo posto della nostra classifica). La scorsa puntata abbiamo citato i Black Sabbath, che inventarono l'heavy metal nel 1970, ma che nei fatti erano diversissimi dalle band della New Wave of British Heavy Metal che ridefinirono il linguaggio dell'heavy metal classico così come oggi lo conosciamo. “Through Silver in Blood”, al contrario, rappresenta ancora oggi un importante standard: sebbene come album sia stato nel tempo superato, sia dai Neurosis stessi che dai loro più brillanti discepoli, esso costituisce il nocciolo fondamentale del post-hardcore e dunque, più in generale, del post-metal.


Si diceva in apertura: all'inizio degli anni novanta il ciclone grunge spazzò via fustacchioni palestrati, chiodati e lungo-criniti, e con essi gli acuti strappatonzille, i guitar-hero, i cori anthemici, le pose plastiche, le moto, le birre e le pupe. Rimossi i cadaveri dal campo di battaglia, spuntarono dalle viscere della terra meste compagnie di irsuti (ed orsuti) figuri dalle lunghe barbe, pelati e con le camicie a quadri. Non erano belli, ma rendevano meglio del ‘tallo brufoloso-capello-cotonato-con-la-maglietta-dei-Manowar che, ripiegato su se stesso, fingeva di suonare una chitarra invisibile. La musica che usciva dagli amplificatori di questi presunti boscaioli, inoltre, era più fresca e, volendo, più estrema: muri di suono assordanti, urla belluine, andamento dei pezzi torrenziale, schema libero ed esteso minutaggio. Dietro di loro: flash sfarfallanti di inquietanti simboli tribali ed immagini di Morte-Apocalisse-Moriremo-Tutti sparate senza pietà sul pubblico. Ebbene, quando tratteggiavamo questo quadretto, avevamo in mente loro e solamente loro: i Neurosis.

Nati dalle ceneri della band hardcore Violent Coercion, i Neurosis trovarono presto una loro personale via d'uscita dalle ristrettezze imposte del genere. “Pain of Mind” (1987), “The Word as Law” (1990), “Souls at Zero” (1992) ed “Enemy of the Sun” (1993) sono le tappe che hanno segnato un percorso che avrebbe cambiato per sempre il volto dell'heavy metal: quelle scorie disarticolate di hardcore/punk di scuola Discharge/Black Flag si aggregarono intorno ad una visione apocalittica che, dilagante, fluida, fumante, espandeva i suoni, colmava gli interstizi, amalgamava contenuti ed inglobava generi diversi e fra loro distanti. I Neurosis divennero così una sorta di via di mezzo fra Swans e Pink Floyd: corrosivi ed ossessivi come i primi, visionari e dal “passo lungo” come i secondi. I Neurosis accostarono l’inaccostabile, resero spirituale un genero fisico come l'hardcore, fecero diventare primitivo un genere avveniristico come l’industrial, e lo fecero con i tamburi, con monumentali e solenni accordi di chitarra distorta, ingraziandosi dunque i Black Sabbath, guardando contestualmente nella direzione dei Godflesh, smaterializzando i suoni fino all’ambient. In pratica inventarono un nuovo genere di metal: il post-hardcore (da non confondere con il post-hardcore di Shellac e Fugazi, quello è un'altra cosa ancora).

La loro gavetta fu lunga, il successo non arrivò subito e il 1996, anno di uscita di “Through Silver in Blood”, non sarà salutato come l’anno zero del “Nuovo Metal”. Il successo, o meglio, il riconoscimento, giungerà successivamente. Prima con “Times of Grace” (uscito nel 1999 sotto la guida attenta del guru Steve Albini): un lavoro viscerale, asciutto essenziale, ripulito dagli ultimi scampoli industriali e dunque più umano. E poi con “A Sun That Never Sets” (del 2001), ancora più umano, che ci accolse con violini, chitarre acustiche, voci pulite ma raschianti: un'opera capace di sconvolgere ancora una volta il mondo che i Neurosis stessi avevano letteralmente creato. Ma è in “Through Silver in Blood” che troviamo la sintesi del Neurosis-pensiero, il caposaldo in cui alberga, in tutta la sua potenza e tragica bellezza, l’essenza del post-hardcore.

Macigno di oltre settanta minuti, esso è un tutto organico in cui i brani (comunque dotati di una loro identità) sono tappe di un unico viaggio apocalittico, devastante ed onirico al tempo stesso. Già il precedente “Enemy of the Sun” anticipava certe tendenze, ma “Through Silver in Blood” le sistematizza nel rigore formale di una produzione solida e possente, di una musica perfettamente orchestrata, di una formazione affiatata che non disperde una singola nota. Un'onda d'urto tremenda in cui il vecchio formato-canzone affoga e perisce definitivamente sotto i colpi di violente esplosioni (che verranno definite “neurotiche”) e stasi ambientali che si alternano senza soluzione di continuità.

Jason Roeder è terremoto, percussioni ancestrali che battono interrottamente al ritmo delle correnti telluriche che si consumano sotto le viscere della terra. Steve Von Till e Scott Kelly sono tempesta, eruzioni vulcaniche, accordi stordenti e grida disumane: non uno, ma due ce ne volevano di cantanti, e le loro voci sono il mantra di un rito sciamanico, di una seduta spiritica che evoca le energie primigenie dell’uomo. Più che una band, i Neurosis sono una tribù. Ma la musica è anche ruggine, petrolio, catrame del mondo moderno destinato a collassare stritolato dalla furia auto-distruttiva dell’uomo. Noah Landis è l’insospettabile cantore che ci parla con il linguaggio delle manipolazioni elettroniche, della sospensione ambientale, del cigolio di macchine che deragliano dalle loro futili funzioni. Il basso di Dave Edwardson sega le orecchie con suoni distorti, pulsando incessante sotto le bordate delle due asce. Last but not the least: Pete Inc., visual-artist incaricato all’epoca di curare la controparte multimediale (testimonianze poco accreditate riferiscono che, nel 1997, la gente che assisteva agli show dei Neurosis vomitava per lo shock dato da musica ed aspetti visuali, ma secondo me, tenendo conto del contesto e della tipologia di pubblico, il vomito non era provocato né dalla musica né dalle immagini proiettate, nda).

In mezzo al caos, gli intrecci dolenti fra il violino di Kris Force e il violoncello di Martha Burns, le improvvise aperture delle cornamuse di John Goff, chiamate a purificare le mostruosità sonore imbastite dalla band: mai si era sentito una psichedelia così dura, un hardcore così poetico, un metal così rozzo ed al tempo stesso nobile…

Metal…non metal…il nostro genere preferito, al cospetto dei Neurosis, si ritrovò innanzi ad un bivio: bere o affogare. Nel 1996 questo non era metal e si usava ancora chiamarlo impropriamente industrial. Il metallaro medio preferiva, in quegli anni, guardare altrove, ma non capiva che dalle fratture della terra stava esalando il siero della salvezza: una salvezza assassina e traditrice che avrebbe salvato il metal, uccidendolo.

Il metal avrebbe trovato la catarsi nell'hardcore, genere che invero non ha mai suscitato grande interesse né simpatia nel popolo metallico, sebbene esso avesse ispirato coloro che inventarono il thrash metal. Il metal avrebbe ritrovato la sua furia originaria, la sua genuinità nell'hardcore, e non è un caso che proprio nel 1996 gli Slayer pubblicavano una raccolta di cover hardcore/punk (il bruttino “Indisputed Attitude”) e due anni più tardi avrebbero rilasciato un album come “Diabolus in Musica” (opera riuscitissima, a parere del sottoscritto) che delle influenze HC faceva grande incetta. Non è nemmeno un caso che negli anni appena successivi avesse iniziato a proliferare il cosiddetto fenomeno metalcore (Avenged Sevenfold, Bullet For My Valentine, Trivium, As I Lay Down ecc.), non tanto grazie ai Neurosis, ma a seguito dell'influenza insospettabile esercitata dagli In Flames, improbabili maestri che (stranezze della vita) dal melo-death di loro invenzione, iniziarono, da un certo punto in poi, a flirtare con l'hardcore, appunto.

Oggi, fortunatamente, distinguere fra cosa è metal e cosa non lo è, non ha (quasi) più senso. Oggi si guarda alla qualità. E la qualità oggi sta quasi sempre fra i solchi di quello che hanno prodotto i Neurosis e i loro più capaci seguaci. “Through Silver in Blood” è l’archetipo del disco post-hardcore, genere malleabile e generoso che sa ospitare gli stilemi stilistici più disparati. E, a proposito di potenziale evolutivo offerto dal genere, basti guardare alle gesta degli stessi Neurosis, dal gothic-sludge (mi si passi il termine) del progetto scritto a quattro mani con Jarboe (2003), alle prove soliste di Steve Von Till e Scott Kelly, che proseguiranno il loro percorso di ricerca interiore scavando ulteriormente nelle tradizioni profonde della loro terra e dunque approdando ad un essenziale e scarno folk/cantautorato di forte connotazione americana.

Tutti, del resto, dovranno fare i conti con i maestri: dalla rivoluzione post-hardcore origineranno molte delle più importanti tendenze del metal, e sotto l'ombra dei Neurosis germoglieranno i talenti più influenti dei nostri anni: dagli Isis (inventori a loro volta in un nuovo genere: il post-metal) ai Mastodon (protagonisti di una multiforme carriera che li condurrà ad acide sonorità settantiane), per giungere infine ai Baroness, alfieri di un rock alternativo che oramai manterrà veramente pochi legami con il metal. Senza contare l'influenza esercitata sulla maggior parte dei filoni più o meno estremi del metallo: è il caso del post-black metal (Wolves in the Throne Room) e del post-death metal (Ulcerate).

Perché dunque tanta fortuna? Perché l'invenzione dei Neurosis, anzitutto, risponde alle esigenze di un'epoca più complessa, stratificata, contraddittoria, ove non esiste una chiara visione del mondo e della società. L'intento del post-hardcore è quello di scavare oltre questa inutile, fastidiosa e deviante complessità e disseppellire un'umanità andata ormai perduta. Come genere, dunque, è più viscerale, più selvaggio, genuino ed al tempo stesso più profondo, colto, spirituale. In altre parole: più autentico, più umano. Primordiale.

Il post-hardcore nella visione neurosiana, infine, ha il pregio di racchiudere in sé entrambe le pulsioni che da sempre animano il metal: da un lato la tendenza a distruggere, dall'altro a creare. Da una parte la volontà di affiidarsi ad un sound violento ed annichilente, dall'altra la possibilità di svilupparsi ed evolversi. Il post-hardcore può essere contaminato dal post-rock, dal rock psichedelico, da quello progressivo, dall'elettronica, dall'industrial, dall'ambient, dalla drone-music, dall'avanguardia, dal folk e dal cantautorato. Tutto teoricamente può essere inglobato dal post-hardcore e questa libertà d'azione piace sia ai musicisti che agli ascoltatori. E se anche il post-hardcore ha i suoi cliché, questi suonano meno rigidi e fastidiosi di quelli dell'heavy metal inteso nella sua accezione classica.


Del resto, una camicia a quadri, una T-shirt sdrucita, un paio di pantaloni da pescatore strappati per areare le palle sono più comodi di jeans attillati, chiodo, borchie e stivali a punta...soprattutto d'estate...