"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

10 mag 2015

ISIS: LA FATICA DI ESISTERE


Il concetto di “post” mi ha sempre affascinato. Il fatto che si parli degli Isis, e dunque di post-metal, è però solo una coincidenza, perché in realtà non voglio parlare di post-metal, ma di “post” inteso come “quel che viene dopo”.
Dopo la maturità.
O il successo.
O entrambi…

La parabola artistica dei bostoniani, nella sua brevità, è stata esemplare. Nati alla fine degli anni novanta sull'onda travolgente del nascente post-hardcore, dimostrarono presto, e prima di altri (molti altri), di esser saltati sul treno giusto. Nel 2000, freschi di nuovo millennio, già se ne uscivano con “Celestial”, che sebbene pagasse un bel dazio ai maestri Neurosis, era un bell'esordio per davvero: acerbo ma passionale, dava alla band la giusta visibilità in un momento storico in cui l'universo “post” stava ribollendo.

Ma cos'è che distingue una band normale da una grande band? Il tempismo: nel 2002 usciva “Oceanic” il quale già mostrava grandi segni di personalità e grazie al quale i Nostri si affermavano come i pionieri e gli alfieri più credibili di un’espansione del suono che ricongiungeva il metal al post-rock strumentale dei Mogwai E cosa, infine, distingue una grande band da una vera e propria Leggenda? Il superarsi continuamente, innovando, stupendo, servendo portate sempre migliori: ecco che nel 2004 usciva “Panopticon”, capolavoro formale della band e pietra miliare dell’intero genere, grazie al quale i cinque americani, forti di un approccio più progressivo, uscivano definitivamente dalla sagoma dell'ombra lunga e lercia di Steve Von Till e soci. 
 
Tutto fantastico, ma poi iniziarono i problemi. Negli anni ottanta una grande band (vedi per esempio gli Iron Maiden), una volta accreditata, poteva permettersi di pubblicare una sequela infinita di lavori fotocopia. Da un po' di anni a questa parte il giochetto non funziona più: il mercato è esigente, i fan sono esigenti, gli artisti stessi sono più esigenti. E quindi o fai come i Tool, ossia non pubblichi più niente, oppure cerchi di evolverti, rischiando però di abbandonarti ad una deriva di ispirazione calante e mestiere crescente.

Gli Isis perlomeno hanno avuto il buon gusto di fermarsi in tempo, nel senso che dopo la loro fase di picco, pubblicheranno altri due album, fra l’altro nemmeno malvagi, “In the Absence of Truth” (del 2006) e “Wavering Radiant” (del 2009), a gruppo più o meno già dissolto (lo scioglimento ufficiale avverrà poco dopo, nel 2010).

Quando ascolto “In the Absence of Truth” a volte ho come l'impressione che tutto vada bene così e che non poteva essere altrimenti: in esso ci vedo una dimessa ricerca, volta a costruzioni sonore meno monumentali, ma in qualche modo più sofisticate ed avviate lungo un sentiero spirituale (come ovviamente predicato dal Vangelo secondo Steve Von Till).

A volte, però, provo una fatica tremenda. Non tanto per l'ascolto in sé, ma nell'immedesimarmi nei musicisti stessi. Solo Jeff Caxide, il bassista, non aveva capito un cazzo: continuava a crederci, lui solo, progrediva con il suo strumento, affinava la sua ricerca melodica, esplorava nuovi suoni, guadagnava spazi, non accorgendosi però che, mentre si dimenava o si chinava a girare le manopole degli effetti sulla pedaliera, i suoi compagni sbadigliavano a bocca chiusa per non farsi scoprire, chi con gli occhi lucidi per contenere l'onda d'urto dello sbadiglio compresso fra le ganasce serrate, chi con gli occhi sgranati per non addormentarsi. Con le occhiaie dell’Area Manager che, a fine giornata, fiaccato da indicibili menate lavorative, ti ascolta distratto, annuendo innanzi ai tuoi futili problemi, ma anche risolvendoteli con la risoluzione dell’uomo di esperienza. Fiacchezza professionale.

Persino Aaron Turner, anima della band, oramai non c’aveva più voglia di cantare. Cantante non lo era stato mai, ma nel momento in cui la musica degli Isis si faceva più raffinata e la componente hardcore si era affievolita, che senso aveva urlarci sopra? E lui (che è un ragazzo intelligente) lo sapeva, ma non poteva fare altrimenti. Strumentali e senza voce non si può diventare, si diceva, sennò i metallari s'incazzano. Cambiare cantante sarebbe stato troppo faticoso. Chissà come sarebbero andate le cose se vi fosse stata l’umiltà di cedere il microfono a qualcun’altro, magari ad una gentil donzella per stupire tutti ancora una volta. Ma anche l’umiltà richiede energia, e quindi Turner lascia spazio alla musica il più possibile, ma senza scomparire del tutto: le sue vocalità sono ovunque poco incisive, cerca di intonare qualcosa di pulito (ma senza profondità), poi torna a quel growl monotono che era riuscito persino ad intaccare la perfezione dei “Panopticon” (meglio allora gli strilli hardcore degli inizi, ma che fatica…).

E poi la musica: mica male la musica, ma la sensazione è …avete presente quando siete in un paese straniero, montate su un autobus perché volete andare da qualche parte, ma, pur non capendo un cazzo, ad un certo punto iniziate ad intuire di aver sbagliato qualcosa, che quell’autobus, proprio quel giorno, proprio a quel giro, si fermerà prima, per qualche oscura ragione? Tappa dopo tappa l’autobus riparte, e voi ogni volta sperate di arrivare alla meta prefissata, ma al tempo stesso rimanete inquieti. Poi finalmente l’autobus si ferma per davvero, tutti silenziosamente scendono, con disinvoltura, si disperdono non si sa dove, siete in mezzo al niente, ognuno sa quello che fare, tranne voi che state ancora rintontiti sull’autobus. Ecco: “In the Absence of Truth”, la parte finale della carriera degli Isis, porta con sé questa sensazione di errore e di inconcludenza, frammiste a speranza e bellezza paesaggistica.

E infatti vi sono guizzi di genialità, c’imbattiamo in trame inedite (soprattutto sul versante ambient), e nel complesso tutto è confezionato decisamente bene. “In the Absence of Truth” paga però lo scotto di appartenere alla categoria delle opere della post-maturità. E non è solo una questione di sfigurare nell’inevitabile raffronto con il glorioso passato. L’artista spesso non ne è nemmeno pienamente consapevole: lo splendore, l’energia della gioventù e della massima ispirazione sono oramai alle sue spalle, ma non ancora lontane anni luce, bensì appena dietro l’angolo. Sebbene diminuita, la linfa vitale c’è ancora, per questo le opere della post-maturità soffrono più di un senso di disorientamento che di vere e proprie lacune artistiche. Da un lato l’artista si sente ancora Dio, ma dall’altro non ci crede fino in fondo. Più che altro ha l’ambizione/disperazione di doversi superare in qualche maniera, ma perde indubbiamente la spensieratezza, perché già cova dentro di sé quella necessità di fuga: fuga dal dover essere quello che tutti vogliono, quello che lui stesso vorrebbe. Non è un caso che tante volte l’artista ricomincia a divertirsi proprio quando oramai ha perso la popolarità, quando non ha più il fiato sul collo, non riceve la pressione di discografici, critica e fan (un po’ come quando i nonni dicono di essersi goduti più i nipoti che i figli, che invece hanno dovuto educare, dei quali hanno avuto la piena responsabilità, sì nel vigore della gioventù, ma anche nella fragilità dell’inesperienza).

Ma se “post” è quello che viene appena dopo, spesso l’artista ancora stordito dai fumi inebrianti del successo e della consapevolezza di essere grande (se non IL migliore), vive in uno stato di allucinazione artistica: nell’assenza di lucidità e nella confusione di una visione offuscata, egli difficilmente andrà oltre una concezione di “futuro futuribile”. “In the Absence of Truth” è il futuro futuribile che gli Isis si immaginavano appena dopo i fasti di “Panopticon”: il futuro futuribile di quelle commedie di fantascienza in cui si tratteggia un futuro prossimo, o anche remoto, che non è altro che una banale proiezione razionale del presente. Non c’è la spinta in avanti dell’utopia, né la forza premonitrice della distopia.

Noi siamo gli Isis, avranno pensato, ragazzi semplici, brava gente, gente onesta, quasi eroi per caso (parafrasando Gianni MorandiC’erano dei ragazzi, che come me, amavano Tool e Neurosis…”): sì, qualcuno pelato, altri con la barba, tutti con la camicia a quadri, ma con il cranio ben rasato, la barba pettinata e senza caccole, la camicia stirata, gente che suonava fra una tesina di dottorato e l’altra, gente che si ubriacava con il succo di mirtilli, gente che mentre suonava nel chiuso della sala-prove pensava ad un bel giro in bicicletta con il cane al guinzaglio, o ad un gradevole picnic con la famiglia nel parco della città (ah, la mia bella Boston…).

E quindi basta: il plettro scivola di mano, la bacchetta cade per terra, gli Isis si sciolgono.


La fatica di esistere.