"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

3 mag 2015

C'È POSTA PER TE, JOHAN!




UNA LETTERA (E UN FIORE) PER JOHAN EDLUND

Caro Johan,

ti scrivo per noia, perché ormai una coltre di indifferenza ci divide, e di te sostanzialmente oggi m’importa assai poco. Non t’ingannare, se vedi incluso un fiore, non è questa una lettera d’amore.

Oggi sopravvive in me solamente la curiosità di leggere novità sul tuo conto nelle recensioni ogni volta che esce un nuovo album dei Tiamat (ma sappi che se non vedo almeno dieci recensioni con il massimo dei voti sul tuo prossimo lavoro, io non ti comprerò più, Johan).

Era il 1992, una vita fa, quando m’imbattei in quel cd colorato, “Clouds”. Quando al negozio inforcai le cuffie e l’ascoltai, fui subito colpito dalla melodia in esso profusa: doom/death con inserti di tastiere, chitarra acustica, atmosfere sognanti. Ne fui immediatamente rapito.

Sentivo di aver trovato un mio sentiero, che continuai a percorrere con passione. Erano gli anni in cui il metal si lanciava in audaci contaminazioni: fioriva il gothic-metal di Paradise Lost e My Dying Bride, si affermava il melodic death di Dark Tranquillity, In Flames ed Edge of Sanity ecc. Ma quando uscì “Wildhoney” (era il 1994), capivo che eri tu il più audace di tutti. Quello che mi aveva stregato di “Clouds” lo ritrovavo fatto meglio ed ulteriormente espanso: c'erano ancora riff corposi e voci aggressive, ma la dimensione era quella del sogno. C’erano ballate romantiche, interludi ambientali, atmosfere pinkfloydiane, il tutto plasmato all’interno di un concept omogeneo (le canzoni sfumavano dolcemente una nell’altra) che dava un senso unitario all’opera, un flusso variopinto di emozioni che, fra pugni e carezze, ti avvolgeva suadente.

Quando tre anni dopo uscì “A Deeper Kind of Slumber” ti superasti. Non tanto da un punto artistico (“Wildhoney” rimaneva all’epoca per me imbattibile), ma per la capacità di osare e di stupire. Johan, eri il più avanti di tutti: dal gothic metal passasti in un sol balzo al “pop”, ad una forma autoriale e raffinata di pop, musica che si semplificava, che contemplava brani di facile presa, ma che non rinunciava ad una ricerca. Depeche Mode che convivevano con Sisters of Mercy e Syd Barrett: eri derivativo all’ennesima potenza, ma dal mare delle citazioni emergeva la tua fragile anima di bambino che rifuggiva nel suo universo di fantasia, esterrefatto innanzi alle brutture del mondo (del resto all’epoca t’aveva lasciato la fidanzata).

Più che altro eri un visionario, Johan, con il tuo mazzo di fiori in mano, ieri capellone, poi pelato, avevi una tua poetica, una tua visione artistica, nonostante lo sguardo vacuo ed inespressivo da cane bastonato. Le tue composizioni erano sospese fra il sogno e la realtà, erano impalpabili, carezzevoli, eri un sognatore e risvegliavi in noi la nostra essenza di sognatori sepolta dagli impegni e dalla frenesia della vita.

Cos'è poi successo Johan? Che cos'è stata quella stronzata di “Skeleton Skeletron?” Al di là del titolo del cazzo e della pessima copertina: che cosa accadde? Povero me che all'epoca (era il 1999) non ero ancora un disilluso: tornai a casa trepidante con il tuo cd e mi ritagliai l'oretta di religioso silenzio per ascoltarti con devozione. Chissà quali sorprese, quali emozioni oggi ci avrebbe portato a casa l’amico Edlund! Fu terribile: la magia se n'era andata, le canzoni scorrevano drammaticamente senza lasciare il segno, finivano in pochi minuti, erano tutte uguali. Diventasti un tamarro, che cos'è successo?

L'incantesimo si ruppe per sempre, tutt’ad un tratto hai smesso di piacermi. Eppure ce l'ho messa tutta per accettarti, per perdonarti, per disseppellire le antiche emozioni e superare il rancore. Ma come troppo spesso capita, dopo una cocente delusione, vi è la sola speranza del fan ad illuminare il cammino del musicista peccatore che cerca di tornare sulla retta via: in questi casi, ogni nuovo album, al momento della sua uscita, viene salutato con entusiasmo, sopravvaluto, preferito a quello immediatamente precedente, per poi poco dopo sbiadire nella sua intrinseca ed originaria mediocrità. “Judas Christ”, che recuperava in parte la vena psichedelica, fu forse migliore di quel piattume che era stato “Skeleton Skeletron”, e “Prey”, che resuscitava addirittura certe ambientazioni di “Wildhoney”, fu forse migliore di “Judas Christ”. Ma era solo l'illusione di un attimo, perché la triste realtà, Johan, è che davvero è tutta roba priva di reale spessore: nemmeno l'ombra dei Tiamat che avevamo conosciuto fino a “A Deeper Kind of Slumber”

Uscì infine “Amanethes” dove addirittura tornasti (dicono) a cantare delle parti in growl, e fu lì che m’incazzai per davvero. Solo per sicurezza e premura ascoltai qualcosa in rete, ma mi bastarono i trenta secondi di un fiacco pezzo country di cui non ricordo nemmeno il titolo per liquidarti per sempre. Ed infatti dell’ultimo “The Scarred People” non ne ho voluto saper niente…

Ma quello che mi chiedo, Johan, è: perché hai smesso di sognare, di vagare per mondi immaginari, e hai iniziato a bazzicare discoteche e bar? A fumare sigarette e bere whisky? Prima con i capelli lunghi, poi con la crapa pelata, eri il metallaro con il fiore in mano (mi ricordo quando Fernando Ribeiro dei Moonspell provò ad emularti in una foto del booklet di “Sin/Pecado”, in cui si faceva ritrarre stringendo un mazzo di rametti secchi), eri il sognatore, il visionario, una volta così cantavi:

With a solar knife I split the sky
And walk right in between
To search the answers to every “why?”
Where I have seen the unseed

I stole the colour of night
To get out of your sight
I am the Visionaire
Follow me if you dare...

I count the stars in my hands
And dream myself strong
To watch them twinkle on my command
As once a year in midwinter songs

I stole the colour of night
To get out of your sight
I am the Visionaire
Follow me if you dare...

Ed invece oggi canti…che cosa canti? Ti piaci, ti gongoli, ti depili le ascelle, probabilmente la sera ti ficchi il cazzo fra le cosce e ti guardi estasiato allo specchio come il maniaco de “Il Silenzio degli Innocenti”, magari cantando la tua “I am in love with myself”. Ti metti rossetto e mascara, la canotta retata, lo smalto sulle unghie (beninteso, mi piace Robert Smith, quindi nessun problema riguardo al look), ma perché ti sei messo a fare il darkettone? Il rockettone? Il rottinculo? A copiare i Sisters of Mercy? A coverizzare i Rolling Stones? A rinnegare i Pink Floyd? A scrivere canzonette di tre minuti strofa/ritornello, che tanto i ritornelli tuoi non hanno mai saputo di niente e con la tua voce monocorde diventano tutti uguali? Ma soprattutto, perché hai rimesso i piedi per terra e mi hai iniziato a parlare di amore in modo banale? Non bastava Ramazzotti per quello?

Mi viene allora un dubbio: non è che tutto nasce da un equivoco? Non è che sei sempre stato un tamarro, ma che per un periodo ti è toccato recitare la parte del metallaro con il fiore in mano solo perché avevi barato al test della visita militare, nel quale mentisti per opportunismo, dichiarando che ti piacevano i fiori solo per essere scartato?